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Arthur Rimbaud SAGGI & MISCELLANEA - Pagina 2

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enfant maudit

INDICE / INDEX
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MALEDETTI POETI!



ARimbaud
ALCHIMIA E POETI MALEDETTI

di Serena Rondello


Vite diverse che si intrecciano e si influenzano psicologicamente e materialmente. Maledetti perché identificati col peccato inteso come alcool, droga, amicizie opinabili, lussuria e piacere sconsiderato. Così vengono classificati un gruppo di autori francesi ribelli vissuti fra la seconda metà e la fine dell’Ottocento: in questa sede vogliamo riferirci ad Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Charles Baudelaire, anche se ve ne sono molti altri. Personalità troppo sensibili ed allo stesso tempo impetuose, uomini che sanno e vogliono mettere in luce l’ipocrisia della vita, la consuetudine borghese e le fuggono con ogni mezzo, senza paura e senza vergogna.

Varie e misteriose sono le teorie che giustificano il loro modo di scrivere e rapportarsi con il foglio di carta: ripercorrendo brevemente le tappe della loro vita e gli eventi che l’ hanno intrecciata, possiamo comprendere perché all’epoca, nei confronti di questi personaggi, si fosse creato un clima di mistero, sdegno e paura.

Rimbaud nasce nel 1854 a Charlesville e rivela da subito doti di bambino prodigio. La sua infanzia è difficile perché il padre abbandona sua madre e i suoi fratelli per sempre e il giovane Arthur viene isolato e fatto immergere negli studi. La prima esplosione poetica è del 1920 quando compone venti poesie che aprono la strada alla consacrazione del suo genio. Quando scrive Una stagione all’inferno è nel pieno della relazione amorosa, discussa e osteggiata con Paul Verlaine ma è proprio grazie a questo sodalizio che nascono i suoi versi migliori.

Paul Marie Verlaine a differenza del compagno Rimbaud, trascorre un’infanzia felice ma la sua propensione al bere e agli stravizi si manifesta molto presto. E’ il periodo in cui legge I fiori del male di Baudelaire e i suoi comportamenti diventano sempre più sconsiderati: passa da momenti di dolcezza all’improvvisa violenza sia verso la madre sia verso la giovane sposa fino all’incontro nel 1871 con Arthur Rimbaud. Fra i due nasce una passione talmente profonda che quando quest’ultimo minaccia di lasciarlo Verlaine gli spara un colpo ferendolo ad una mano. E’ imprigionato e condannato e conosce così la miseria più nera e la vera e propria decadenza dalla quale nascerà la sua tarda gloria. In un ennesimo gesto di sfida verso la società borghese che aveva catalogato con disprezzo la categoria di intellettuali di cui anch’egli faceva parte con l’appellativo Decadenti, dirige e si fa portavoce della rivista “Le décadent”.

Ancora qualche nota su quello che viene definito il padre dei poeti maledetti: Charles Baudelaire. Con la sua opera Les fleurs du mal viene annoverato come capostipite della famiglia degli autori immorali francesi e fra i suoi grandi meriti, c’è senza dubbio quello di descrivere con magnificenza la sua Parigi che lo tormenta, lo esalta e lo delude.

E’ stato definito “reincarnazione di un angelo ribelle” e la prima edizione di questo testo è addirittura processata per immoralità nel 1857. Baudelaire, la cui vita è stata caratterizzata dall’odio smisurato nei confronti del patrigno morbosamente attaccato alle rigide regole borghesi, fa comparire nei suoi scritti figure dannate come spettri, vampiri e invoca Satana per evidenziare il degrado e l’immoralità del genere umano che, per ovviare a questi dispiaceri si consola nel vino, nel fumo e nel sesso come lo stesso Charles.

“Il Diavolo regge i fili che ci muovono!
Gli oggetti ripugnanti ci affascinano:
ogni giorno discendiamo di un passo verso l’inferno,
senza provare orrore, attraversando tenebre mefitiche.”
(“Al lettore” da Les fleurs du mal)

I temi giudicati scandalosi e troppo rivoluzionari per l’epoca sanciscono il trionfo del poeta nell’ambito degli intellettuali del tempo, fra cui i sopra citati Verlaine e Rimbaud che lo prendono ad esempio e seguono la sua stessa filosofia di pensiero.

Anima al diavolo, dedizione ad arti esoteriche: ecco come viene giustificato l’estro in capo ad artisti che hanno innovato lo stile poetico e prosaico. Perché non si ammette che ogni secolo è caratterizzato da personalità che hanno qualcosa non di paranormale, ma di semplicemente sensazionale?
E poi, il connubio arte e alchimia se vogliamo non è neanche fuori luogo: gli alchimisti chiamano la loro scienza Arte Sacra e, per sottolinearne l’importanza, la indicano con la A maiuscola. Il loro compito è di creare un equilibrio fra micro e macrocosmo così come questi scrittori hanno creato il loro linguaggio, il loro mondo di parole, musica, suoni, colori e immagini.

I misteri e i segreti delle loro vite sono ormai conosciuti, hanno scandalizzato, elettrizzato, emozionato, stupito. L’ambiguità dei comportamenti si riversa in un’assoluta fedeltà verso la propria persona, il proprio spirito e operato.

Solo chi soffre veramente conosce la realtà, grande è la paura della disperazione ma altrettanto ferrea sarà la volontà di coglierla appieno per scoprire l’avversità della vita: solo chi si trova in questa condizione è in grado di comprenderlo, ma il privilegio è davvero di pochi.







PARLIAMO UN PO’ DI ARTHUR RIMBAUD...

LA VITA


Nacque nel 1854 a Charleville. Il padre abbandona per sempre la moglie e i figli. Arthur trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Charleville, nel clima soffocante della famiglia e della provincia. Subito, dai primi anni di scuola, rivela doti di ragazzo prodigio: un'eccezionale precocità sostanziata da un ferreo tirocinio umanistico. La madre, guidata dall'ambizione proiettata sul futuro dei propri figli, isolò il giovane Arthur, che si immerse negli studi. Nel 1896 scrive la sua prima poesia "Le strenne degli orfani". Nel 1870 assistiamo a una vera e propria esplosione poetica: compone le ventidue poesie che sconsacrano la precocità del suo genio. Ha un legame d'amicizia con un giovane professore di francese, che allarga la sua cultura. Questi nel luglio muore, nel conflitto franco-prussiano, e questo sconvolge Rimbaud. Comincia a manifestare i primi sintomi della sua insofferenza e della sua rivolta verso le istituzioni fondamentali: famiglia, scuola, religione e patria. Fugge tre volte di casa; la fuga lo porta a Parigi, costringendolo ad una vita da strada. Questo è un momento di totale ribellismo. Egli legge poeti "immorali" come Baudelaire e si nutre di filosofia e di occultismo e si accende la sua furia anticristiana e anticlericale.

Nel 1871 conosce Verlaine, con cui intreccia una relazione che scandalizza la Parigi letteraria. È l'inizio di una grande, storica amicizia particolare, intensa e burrascosa, ricca di viaggi, rotture, riconciliazioni, stravizi (alcool e droghe), episodi violenti e drammatici.

Rimbaud assume droga e vive in maniera dissoluta; l'unico in grado di avvicinarlo è Verlaine, che nel '72 abbandona la moglie e parte con Arthur per Londra. Durante il sodalizio con Verlaine, Rimbaud compone le opere maggiori: "Ultimi versi", "Una stagione all'inferno" e "Illuminiazioni".
Nel '73 Rimbaud lascia l'amante, che reagisce sparandogli e colpendolo al polso. Verlaine finisce in galera, mentre Rimbaud completa "Una stagione all'inferno". Ha solo diciannove anni e prima del suo ventesimo compleanno deciderà di non scrivere più, dedicandosi allo studio delle lingue e alla pratica dei più vari, avventurosi mestieri.

Parte poi per l'Africa dove diventa mercante e contrabbandiere d'armi. Colpito da sifilide, gli viene amputata la gamba destra. Torna in Francia nel 1891, assistito dalla sorella Isabelle e il 10 novembre dello stesso anno muore.

In Rimbaud vita e poesia appaiono indissolubilmente legate come segno del destino. Ragazzo precoce e geniale, Rimbaud non può sfuggire alla legge comune, e inizia a scrivere versi sotto l'influsso palese di altri poeti. Rimbaud è forse il più "maledetto" tra i poeti simbolisti e d'avanguardia. La sua poesia si proietta sulla vita e ne fa strazio. Il giovane Arthur aspira alla rivelazione dell'ignoto e dell'assoluto, che forse solo la poesia può cogliere e svelare. Egli vive fino alle estreme conseguenze il disprezzo del mondo, che colpì già Baudelaire e Verlaine, mentre ricerca l'impossibile identificando la poesia con il caos e con la rivoluzione.

La poesia e la vita di Rimbaud si svolgono al di fuori di tutte le convenzioni e delle normali esperienze. Negando il valore di ogni consuetudine borghese, anzi rifiutandole e fuggendole, egli tenta di cogliere l'autentico significato dell'esistenza. Come la sua biografia è ricca di episodi eclatanti e scandalosi, allo stesso modo la sua poesia si consuma in una brevissima stagione (dai 16 ai 19 anni), durante la quale insegue la poesia e la "verità" nelle avventure più stravaganti e pericolose.

La rivolta rimbaudiana si esprime nella tematica antiborghese e anticristiana. Nel '71 scrive le due "lettere del Veggente" nelle quali afferma la sua nuova poetica ormai svincolata dalla tradizione. Sono due documenti di straordinaria importanza per l'itinerario di Rimbaud e per il divenire della poesia e dell'arte moderna fino ai giorni nostri. Rimbaud sostiene che il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi, e giunge all'ignoto di dove riporta le sue visioni. Le invenzioni d'ignoto richiedono forme nuove e una nuova lingua. In queste "lettere del Veggente" il poeta critica la poesia soggettiva della tradizione in favore di una poesia oggettiva.

"Una stagione in inferno" ha le caratteristiche di una presa di coscienza, di una confessione: presenta i tratti di un'autobiografia spirituale. Qui l'autore vuol presentare la chiusura di una stagione della vita (e seguirà il silenzio definitivo). Torna il tema della rivolta letteraria, il rapporto con la civiltà e col cristianesimo, il legame con Verlaine. Alla fine, nella logica non discorsiva, contraddittoria del testo, prevale l'accento della rinuncia e dell'accettazione del dovere.

Sulla scia di Baudelaire, Rimbaud nelle "Illuminazioni" abbandona il verso per la prosa, che diventa nelle sue mani uno strumento lirico d'inaudita potenza e ricchezza. Il libro consta di 42 prose, divise in autobiografiche e descrittive. Rimbaud distrugge le apparenze sensibili e ricrea sulla pagina un mondo stravolto, surreale, dove vigono nuove misure, proporzioni, rapporti. La scrittura è rapida, lucida e rigorosa. Nel loro delirio fantastico, le "Illuminazioni" non smettono di mantenere un riferimento costante alla realtà storica. Con le parole del poeta "la memoria e i sensi divengono il nutrimento dell'impulso creatore".

Per la sua carica utopica e per la tensione che pervade tutta la sua opera, Rimbaud è stato assunto tra i numi tutelari del surrealismo e di tutta l'avanguardia storica. La singolarità della sua vicenda biografica e letteraria ha creato intorno a lui un vero e proprio mito.







Jim Morrison - poster
RIMBAUD AND JIM MORRISON *

di Wallace Fowlie


[...] Se la poesia spesso conserva riflessioni e ricordi di un'infanzia vista come perduta o trasfigurata, la poesia di Arthur Rimbaud è l'infanzia stessa. [...]

La prima infanzia, che è l'argomento delle sue poesie più belle, trascorse priva di amore e di affetto. In seguito, due persone avrebbero avuto per lui un'importanza particolare: Georges Izambard e Paul Verlaine. Una sola figura, la madre, abita il suo mondo infantile. Madame Rimbaud, una donna di intelligenza limitata e grande orgoglio, escluse il figlio dai contatti con il mondo e lo isolò nei suoi sentimenti di ribellione. Anziché trovare in lei comprensione e amore, il piccolo Arthur incontrava severità e costanti rimproveri. Il padre, un ufficiale dell'esercito, se n'era andato poco dopo la nascita del figlio. Il bambino deve aver provato sentimenti di colpa nello sperimentare quegli impulsi d'amore che solitamente legano un bambino alla vita.

Invece di attaccarsi alla vita, le si scagliò contro. [...] [...]

[...] Per tutti i ragazzi esiste un dramma centrale, l'ingresso nell'adolescenza. Questo dramma, che comporta un cambiamento fisico e psicologico, viene celebrato dalle tribù primitive con il rito solenne dell'iniziazione, ma passato sotto silenzio nelle civiltà contemporanee. Il giovane entra in un mondo di adulti che crede di poter amare e da cui vuol sentirsi amato. Sant'Agostino, parlando della propria adolescenza, dice: "E che cosa mi affascinava, se non l'amare e l'essere amato?". [...]

Arthur Rimbaud non aveva mai sperimentato l'amore nella casa paterna. [...]

Sia nella Confessioni che nella Vita nuova, tra la solitudine dell'adolescenza e il senso di una vocazione personale, sono proiettati i sogni o le realtà della vita sessuale, che può essere attiva e dissoluta come nel caso di Sant'Agostino oppure passiva e idealizzata come nel caso di Dante. Rimbaud conobbe un amore sostitutivo che spesso è presente nella vita degli adolescenti destinati a diventare artisti, e precisamente l'amore per un maestro. In George Izambard, Rimbaud trovò una guida che ammirava e un amico in cui aveva fiducia. Rispetto, gratitudine e affetto fanno parte del sentimento che legava il giovane allievo al giovane maestro. [...]

Georges Izambard arrivò per la prima volta a Charleville nel gennaio del 1870 per tenere il corso avanzato di letteratura al Collège. Aveva ventun anni. Aveva trascorso l'infanzia e frequentato le scuole a Douai, nella Francia settentrionale. L'amore per la letteratura e in particolare per la poesia moderna animava il suo insegnamento.

Izambard notò subito l'allievo Rimbaud, un ragazzo di soli cinque anni più giovane di lui. [...]

Rimbaud era affascinato intellettualmente da Izambard e Izambard era affascinato dall'ammirazione di un allievo così dotato. Madame Rimbaud reagì come la maggior parte delle madri in circostanze simili. Era lusingata dal fatto che il giovane insegnante avesse scelto suo figlio per dedicargli una speciale attenzione, ma la gratitudine iniziale si tramutò in gelosia quando si rese conto che l'indottrinamento ricevuto dal maestro rendeva il figlio consapevole della grettezza del suo stile di vita.

[...] Izambard fu per Rimbaud la principale fonte di conoscenze sui poeti della sua epoca e le riviste più attuali. [...]

Per circa nove mesi Izambard ebbe una grande influenza sulla vita di Rimbaud. Erano i mesi in cui questi provava un profondo disprezzo per la società di Charleville. [...]

Rimbaud non approfittò ma dell'amicizia di Izambard; la loro fu una relazione onesta e irreprensibile. Dopo aver ripudiato la disciplina materna, egli accettò i consigli fraterni del suo insegnante fino al momento in cui, esaurite le lezioni, scolastiche e non, si volse verso il pià attraente orizzonte di Parigi, dove un poeta famoso attendeva la sua visita. [...]

La cordialità di Verlaine era nota. Rimbaud gli aveva mandato le sue poesie da Charleville e in risposta Verlaine aveva invitato il giovane a Parigi per la fine di settembre del 1871. A quell'epoca Rimbaud era ormai certo di essere un poeta e nutriva le più alte ambizioni letterarie. [...]

Ancor prima dell'arrivo di Rimbaud a settembre, le cose andavano piuttosto male tra Verlaine e la moglie. La nascita del figlio, avvenuta il 30 ottobre non sembra aver colmato il distacco che andava crescendo tra loro. La tendenza al bere stava diventando eccessiva in Verlaine. L'abitudine all'assenzio l'aveva già portato a sporadici attacchi di delirium tremens, durante i quali aveva percosso la moglie.

Coin de table, del 1872, mostra Rimbaud in mezzo a un gruppo di poeti e pittori molto più anziani di lui.

Coin de table - L'angolo di tavolo
Dopo sei mesi a Parigi, Rimbaud tornò a Charleville nell'aprile del 1872. Due mesi dopo era di nuovo a Parigi [...]. Nei mesi di maggio, giugno e luglio compose alcuni dei poemi in prosa per le Illuminazioni. Il 7 luglio, quando Rimbaud e Verlaine partirono per il Belgio, passando da Arras, Charleville e Bruxelles, cominciò l'anno più turbolento della loro vita, che sarebbe culminato a Bruxelles il 10 luglio 1873, con il colpo di pistola.

Nel luglio 1872 erano a Bruxelles da meno di una settimana quando la moglie di Verlaine e la suocera vennero a riprendersi il marito pentito. Verlaine fuggì dal treno che lo riportava a Parigi e tornò da Rimbaud. Questo fu l'ultimo tentativo di riconciliazione tra Verlaine e Mathilde. Dopo due mesi a Bruxelles, i due amici partirono per Londra il 3 settembre e vi rimasero sei mesi, eccetto un periodo di tre settimane, a cavallo tra dicembre e gennaio, in cui Rimbaud tornò a Charleville. A Londra davano lezioni di francese, ma per lo più vivevano del denaro inviato a Verlaine dalla madre. Nel febbraio del 1873 Rimbaud è ancora a Charleville, ma per la fine di maggio i due sono di nuovo insieme a Londra. Le liti divennero frequenti. Il 3 luglio Verlaine abbandona Rimbaud a Londra e parte per Bruxelles. Una breve annotazione del 4 luglio rivela il desiderio di Rimbaud di sanare la rottura.

Verlaine telegrafa all'amico di raggiungerlo a Bruxelles. Dopo pochi giorni in città, Rimbaud dichiara la sua intenzione di partire per Parigi. Verlaine, in collera, gli spara due colpi di pistola. Una pallottola lo colpisce al polso sinistro. I due, insieme alla madre di Verlaine, arrivata da Parigi, si recano all'ospedale Saint-Jean, dove la ferita viene medicata. Più tardi, quella stessa sera, mentre Verlaine cerca di dissuadere Rimbaud dalla partenza, interviene la polizia. Verlaine viene condannato a due anni di prigione dal tribunale di Bruxelles con l'accusa di tentato omicidio. Trascorrerà otto mesi nella prigione di Mons.

Né Verlaine né Rimbaud accettarono mai l'accusa di omosessualità formulata ne loro confronti da amici e parenti. Entrambi la respinsero nei loro scritti. I documenti più importanti per capire la loro relazione sono alcune poesie di Verlaine e alcune parti di Una stagione all'inferno.

[...]

Dopo che Verlaine venne rilasciato dal carcere, i due poeti ebbero un ultimo incontro nel febbraio del 1875 a Stoccarda, nel corso del quale Rimbaud si prese crudelmente gioco delle nuove tendenze religiose di Verlaine.

Nei mesi immediatamente successivi Rimbaud vagò senza meta, dapprima lungo il Reno, poi a Milano e a Siena. In ottobre lo ritroviamo a Charleville, dove si fermò dedicandosi a un periodo di intensa ricerca linguistica. Nell'aprile del 1876 un grave litigio con la madre e il fratello lo costrinse a ripartire. Si arruolò nell'esercito olandese e raggiunse Java, dove disertò fuggendo come marinaio su una nave inglese. L'ultimo giorno dell'anno arrivò a Charleville, quasi irriconoscibile agli occhi della madre per via della pelle scurita dal sole e della folta barba bionda.

L'anno seguente, il 1877, altri viaggi incostanti lo condussero in Germania, a Copenaghen, Stoccolma, Marsiglia e Roma. Trascorse l'inverno e la primavera a Charleville, dalla madre, quindi ripartì per la Svizzera, Genova e l'Egitto. Nel 1879 raggiunse l'isola di Cipro, dove venne assunto come interprete per un gruppo di lavoratori. Un attacco di febbre tifoide lo costrinse a tornare a Roche, vicino a Charleville. Ciò segnò la fine del suo periodo di vagabondaggio. Aveva venticinque anni, le sue guance s'erano incavate e i capelli cominciavano a diventare grigi.

Rimbaud trascorse i dieci anni dal 1880 al 1890 per lo più a Aden, all'estremità meridionale dell'Arabia Saudita, e a Harar, nell'interno dell'Abissinia. [...] Nel 1884 viveva con una donna harariana, a Aden. Non parlerà mai di lei, in seguito, ma ricorderà, persino sul letto di morte a Marsiglia, il ragazzo che gli fu servitore e fedel compagno, Giami.

[...]

Questi dieci anni della sua vita rappresentano il prevalere dell'avido contadino delle Ardenne nascosto dentro di lui. Per certi versi assunse la personalità della madre contro cui si era ribellato da bambio e da adolescente. Le lettere che scrisse alla famiglia tra il 17 agosto 1881 e il 30 aprile 1891, un centinaio, sono le lettere di un lucido e pratico uomo d'affari. Non vi è traccia del suo stile né della sua sensibilità come poeta. La vita che descrive è quella di un dipendente caparbio, determinato a mettere insieme una fortuna e conquistarsi l'indipendenza. Per dieci anni Rimbaud si ostinò a credere nel valore borghese della sicurezza. Condusse una vita austera, lavorando sodo e frequentando poche persone nel suo isolamento di straniero. Era il commerciante occupato ad arricchirsi, ma fallì miseramente. Dopo dieci anni di fatica e sudore nel clima torrido dell'Abissinia, aveva messo da parte solo ventimila franchi.

Nel febbraio 1891, quando si trovava ancora a Harar, si manifestarono i primi sintomi di un tumore al ginocchio destro. Alla metà di marzo era costretto a letto e alla fine del mese decise di farsi ricoverare nell'ospedale europeo di Aden. Il gonfiore alla gamba peggiorò durante l'ospedalizzazione. Il 9 maggio partì per Marsiglia, dove arrivò tredici giorni dopo. All'Hôpital de l'Immaculée Conception gli venne amputata la gamba. Madame Rimbaud venne a Marsiglia per qualche giorno subito dopo l'operazione. Fu il primo incontro tra madre e figlio dopo dodici anni. In luglio, Rimbaud affrontà un altro viaggio penoso da Marsiglia a Roche, dove trascorse un mese. Durante il viaggio di ritorno, in agosto, ogni sobbalzo del treno gli provocava un'acuta sofferena. Il tumore si era diffuso in altre parti del corpo. All'ospedale di Marsiglia gli viene diagnosticato come carcinoma.

La sorella Isabelle lo aveva accompagnato a Marsiglia e [...] era al suo fianco quando sopraggiunse la morte, il 10 novembre. Il corpo di Rimbaud venne trasferito a Charleville. Durante il servizio funebre fu celebrata una messa solenne, dopo di che solo la madre e la sorella accompagnarono il feretro al cimitero. Non erano presenti né amici né letterati ma, dieci anni più tardi, nella piazza di Charleville, venne eretto un monumento a Rimbaud. La statua fu danneggiata due volte dai tedeschi durante l'invasione del 1914 e quella del 1940. Rimbaud stesso aveva assistito alla prima invasione del nascente impero germanico nel 1870.

Alcuni autori cattolici, profondamente influenzati dall'opera di Rimbaud - uomini come Claudel, Jacques Rivière e Daniel Rops - hanno interpretato gran parte delle sue poesie alla luce di una possibile conversione religiosa. La natura degli scritti di Rimbaud è tale che atei e cattolici, mistici e surrealisti possono trovarvi conferme dottrinali. Se il dilemma religioso è sempre presente nelle sue opere, esso rimane però irrisolto e rappresenta una minaccia per qualsiasi concessione o ricerca di una pace terrena. Al termine della sua vita, l'uomo giunse alla fine dei suoi viaggi forse facendo ritorno alla fede della sua infanzia, ma la sua arte rimane un supremo esempio di ricerca e di volo, di bestemmia e preghiera, di innocenza e di inferno.


W. Fowlie, Rimbaud e Jim Morrison. Il poeta come ribelle, Il Saggiatore, Milano 1997 [ed. inglese, 1994].








ALLA RICERCA DI RIMBAUD: AVVENTURE POETICHE E GIROVAGHE

di Stenio Solinas

[English version below]

Al Rimbaud africano dedica una biografia accurata Charles Nicholl. S'intitola "Somebody Else. Arthur Rimbaud in Africa 1880-91" (Jonathan Cape Ed.), e è una sorta di viaggio sulle orme di, o di pellegrinaggio, se si preferisce.

Ai cultori accaniti dell'autore di Une saison à l'enfer offre due o tre elementi non secondari: smonta definitivamente, con documenti alla mano, la vulgata del Rimbaud mercante di schiavi, avanza dubbi fondati sulla veridicità della Casa Rimbaud di Harar, in Etiopia, ricostruisce puntigliosamente viaggi, guadagni, odii e amicizie.

Rappresenta il documento più completo e più fedele del periodo africano. Per il semplice appassionato è comunque una festa, perché Nicholl è bravissimo nel reportage letterario e coniuga felicemente dati e invenzioni narrative, descrizioni e sensazioni.

Si chiamava Wandering Chief, il Comandante errante, la nave che nel 1876 riporta Rimbaud in Europa da Giava, dove ha disertato dopo essersi arruolato nella Legione straniera olandese.

E' un nome profetico per uno che l'anno precedente è stato in Germania e in Italia e l'anno dopo sarà in Svezia, Danimarca e Norvegia, prima del grande balzo verso i porti africani.

Allorché riappare a Charleville, la sua città natale, l'amico Ernest Delahaye commenta per iscritto: “E' tornato! Un viaggio breve, niente di che. Ecco le tappe: Bruxelles, Rotterdam, Southampton, Gibilterra, Napoli, Suez, Aden, Sumatra, Giava, Città del Capo, Sant'Elena, le Azzorre, Queenstown, Cork (in Irlanda), Liverpool, le Havre, Parigi e finalmente, come sempre, Charleville”.

Alla lettera è accluso un cartoncino disegnato dallo stesso Delahaye. Lui e Rimbaud che fumano e bevono in un bar. “Quando riparti?”, chiede il primo. “Non appena possibile”, è la risposta. Alfred Barday, che sarà suo datore di lavoro a Aden, ammetterà: “Volerlo trattenere era come cercare di fermare una stella cadente”.

E' durata un lustro e poco più la sua avventura poetica. “L'altro” che sarebbe voluto essere, avrà a disposizione un decennio. Sufficiente a crearsi un'esistenza doppia, ma non a far svanire, almeno per gli altri, l'”io” d'un tempo. Se Une saison à l'enfer l'ha lasciata marcire, appena stampata, in una tipografia di Bruxelles, Illumination esce, a cura di Verlaine e senza che ne sappia nulla, mentre lui è lui a marcire di noia a Tagiùra in Abissinia.

E' il 1886, e Rimbaud l'africano s'è ormai fatto adulto. Traffica, commercia, convive con una bellissima abissina, memore forse degli inconvenienti del celibato in quelle terre che a metà Ottocento Gerard de Nerval aveva raccontato nel suo Voyage en Orient: “Un signore non deve vivere solo, è sempre una cosa onorevole nutrire una donna e farle un po' di bene. I vicini hanno delle donne e sarebbero inquieti che lui non ne avesse. Qui si usa così. Bisogna scegliersi una donna per viverci insieme”.

E' contento? Ha trovato quello che cercava? A giudicare dalle lettere che scrive a casa, no. Gli ripugna il lavoro, detesta la compagnia di “selvaggi o imbecilli” avuta in sorte, ha in orrore i luoghi, trascina “un'esistenza desolante" sotto climi assurdi e condizioni insensate. “E' un vero incubo. Sto per compiere trent'anni (la metà della vita!) e mi sono stancato di girare il mondo senza risultato”.

Sembra la risposta in prosa al se stesso in versi che fu: “Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino, / dove ogni cuore si apriva, ogni vino fluiva”.

E però, sempre nella corrispondenza con madre e sorella, un'ammissione, quasi fatta di sfuggita, permette di riequilibrare quell'opera al nero che sembra essere divenuta la sua vita: “Sono ormai abituato a ogni specie di guaio. E se mi lamento, è un po' come una litania”. Ci si scarica anche così, insomma, così si esorcizza quella malattia che Baudelaire aveva diagnosticato: “L'horreur du domicile”, l'orrore di risiedere in un posto.

E infatti, tanto rassicura i familiari sulla normalità dei suoi progetti futuri, sposarsi, tornare, mettere su casa, quanto s'affretta a stoppare eventuali fisime da focolare domestico: “Se ritorno, non contate sul mio umore meno vagabondo. Al contrario, se avessi la possibilità di viaggiare senza dovermi guadagnare da vivere, non starei più di due mesi nello stesso posto. Il mondo è grande e pieno di paesi magnifici che l'esistenza di mille uomini non basterebbe a visitare. E però non vorrei vagabondare in miseria...”.

“L'onestà della mendicità mi fa schifo”, aveva già scritto quando l'io era ancora se stesso e non un altro...

In realtà, dalle testimonianze di chi lo conobbe nelle nuove spoglie del mercante e dell'avventuriero, Rimbaud non è un disadattato, o uno che cerca di spremere il più possibile dal luogo dove vive per poi filarsela... Conosce benissimo l'arabo, ne apprezza la cultura, ha amici, e se la sua “collera è grigia come la lussuria” e gli fa passare brutti momenti, è anche di compagnia, simpatico, affascinante.

Nella sua biografia Nicholl sottolinea due elementi dell'esperienza africana. Il primo è un senso quasi di estremità, un mettersi sempre alla prova fisicamente. Le spedizioni, i viaggi, le carovane che guida sono faticose, estenuanti... Il secondo riguarda una capacità particolare a nascondersi, a mascherarsi, a scomparire. Se il primo non è una novità, ma casomai una costante (più d'una volta, ancora ragazzo e ancora poeta, Rimbaud ha collassi per stanchezza, troppo cammino, poco sonno, niente vitto...), il secondo è un po' la chiave di volta della sua nuova esperienza di vita. Nell'ottobre del 1887 al console francese a Aden arriva la lettera piccata di un connazionale: “Da quando sono qui ho cercato invano di sapere dove il signor Rimbaud abiti. Nessuno è stato in grado di dirmelo, sebbene sia certo che viva in questa città. Considerata tale attitudine del signor Rimbaud, che sistematicamente si eclissa, le chiedo, Signor Console, di essere così gentile da convocarlo”.

Monsieur Emile Deschamps, l'autore del lamento di cui sopra, è un agente delle Messaggerie marittime, e cerca Rimbaud perché, a suo dire, gli deve dei soldi per un vecchio affare piuttosto pasticciato. E' ovvio, quindi, che l'altro non si faccia trovare, ma non è neppure così semplice nascondersi in una città dove un europeo gode pur sempre di visibilità. Rimbaud lo fa con grande naturalezza. Se vuole, quando vuole, è lui a farsi vivo per lettera. Anche con Deschamps finirà così.

Alfred Bardey, il suo datore di lavoro più importante in Africa, descrive la partenza di una carovana capitanata da Rimbaud: "Alla guida del convoglio Rimbaud si sistema intorno alla testa, alla moda araba, un turbante e fa cadere una veste rossa sugli abiti usuali. Vuole farsi passare per musulmano. Ridiamo di questo travestimento, e lui con noi. Orientalizzarsi è rischioso, lo sa, ma per il prestigio della compagnia desidera passare per un ricco mercante locale”.

“Trafficare nello sconosciuto” permette in fondo proprio questo, essere nuovi al mondo per un mondo nuovo. Rimbaud assapora su di sé l'inebriante sensazione di creare la propria identità. “Il poeta che si fa veggente” lascia il posto all'uomo che si fa da sé, reinventa il proprio passato, costruisce il proprio presente, sogna il proprio futuro. Nessuno è in grado di smentirlo, nessuno può dire di averlo conosciuto. E' una sensazione di totale, inebriante, pericolosa libertà. “Ho teso corde da campanile a campanile / Ghirlande da finestra a finestra / Catene d'oro da stella a stella / E danzo”.

La danza di Rimbaud comincia a farsi insicura nell'estate del 1887. Ha 34 anni, “un reumatismo alle reni mi fa dannare, un altro alla coscia sinistra mi paralizza ogni tanto, dolori articolari anche al ginocchio, un vecchio reumatismo alla spalla destra. Ho i capelli completamente grigi e mi rendo conto che la mia esistenza va a rotoli. Sono stanco, non ho un posto, ho paura di perdere il poco che ho. Figuratevi che porto sempre nella mia cintura circa sedicimila franchi in oro: otto chili è il peso e la dissenteria mi sfianca”. Crede sia il risultato di “exploits del seguente genere: traversate, cavalcate, viaggi a terra e in barca, senza vestiti, senza viveri, senz'acqua eccetera eccetera”.

In realtà, già la sorella Vitalie, più tardi la madre, morranno della stessa malattia: neoplasia alla coscia, tumore che devasta. Chi ha fatto dell'errare e dell'irrequietezza la sua unica ragione di vita si ritrova a volte bloccato nel muoversi, altre inchiodato a un letto. Fra alti e bassi, ritorni di forze, progetti e realizzazioni di nuovi viaggi, tiene duro, bacchetta madre e sorella perché parlano sempre di malattie e di morte, non cede.

E' un ragazzone, alto uno e ottanta, porta il 41 di scarpe, è abituato alla fatica. Passerà, si dice. Il male gioca con lui a rimpiattino. Appare, colpisce, scompare. Nel febbraio del 1891, allorché chiede alla madre una calza elastica, crede ancora che si tratti di varici, che basti stare sdraiato, riposarsi... Non sa che il tumore lo sta divorando dal di dentro. Non c'è nulla di più doloroso del vedere una giovinezza deformarsi e piegarsi, e del non capirne, o non volerne accettare, il perché. E non c'è nulla di più avvilente, per chi ha sempre usato ed abusato del proprio corpo, non l'ha risparmiato, lo ha creduto inesauribile, del rendersi conto che non risponde più, che non ti appartiene più.

Costretto su una sedia a rotelle, alla fine della sua vita Bruce Chatwin si ritrovò a appassionarsi dell'ultimo Rimbaud, quasi che la comprensione di quella morte potesse fungere da balsamo per una sua guarigione. Un moderno narratore e viaggiatore si confrontava con il prototipo della modernità nella scrittura e nella vita.

L'interrogativo rimaneva sempre lo stesso: perché? Perché a vent'anni si volta le spalle a tutto e ci si inventa da capo? Nel bagaglio di Rimbaud rimane ben conservata la lettera con cui un giornalista francese gli annunciava, nel 1890, che in patria si parlava di lui come di un genio della poesia... Lettera senza risposta, e però non cestinata... Perché, dunque, quella scelta?

Nel voltare le spalle all'Europa e a un'esistenza tutta trasgressioni e esaltazioni, Chatwin vedeva una fuga verso la salvezza, verso la sanità fisica.

E solo letta così Une saison à l'enfer appariva plausibile. Viaggiare significava allontanarsi dalla follia, dalla malattia, incamminarsi sulla retta via. Solvitur ambulando, camminando si risolve. Credeva, Chatwin, in questa formula, nelle virtù terapeutiche dell'andare a piedi. Trasferiva sulla sfortunata odissea del francese le proprie convinzioni. Era certo che se fosse riuscito a rimettersi in piedi, a riguadagnare l'uso delle gambe, ce l'avrebbe fatta.

La capacità che hanno certi malati di autoingannarsi ha dello stupefacente, e ha un che di eroico la loro sopportazione al dolore, il non darsi comunque per vinti.

Amputato di una gamba, Rimbaud commenta. “Per stupida che sia la propria vita, l'uomo ci si attacca”. Sei giorni dopo l'operazione, ha già scritto al governatore di Harar: “In una ventina di giorni sarò guarito. In qualche mese conto di tornare per commerciare come prima”. Si illude, e lo sa, ma sposta sempre un po' più avanti il momento della delusione. Sono lettere struggenti le sue: “Dove sono le corse per i monti, le cavalcate, le passeggiate, i deserti, i fiumi e i mari? Non sono che un tronco immobile”. E però si esercita con le stampelle, suda e fatica, pensa a un arto artificiale, rimanda la decisione estrema: “Forse mi piomberà allora addosso una nuova sfortuna. Ma questa volta saprò sbarazzarmi di una miserabile esistenza”.

Nel delirio ha un'idea fissa, ritornare, ripartire. Scrive Isabelle alla madre: “Mescola tutto e... con arte. Siamo nell'Harar, partiamo sempre per Aden... Cammina molto facilmente con la nuova gamba articolata, facciamo qualche giro a passeggio su bei muli riccamente bardati”.

Un'agonia la sua che stringe il cuore: “Soffre troppo quando lo prendono per metterlo sulla poltrona o quando lo rimettono nel suo letto. Fare il letto significa colmare un vuoto da una parte, togliere una gobba dall'altra, sistemare la traversa, le coperte. Non può sopportare una piega sotto di lui, la testa non è mai messa bene; il moncherino è troppo alto o troppo basso; bisogna mettergli il braccio destro completamente inerte su strati di ovatta, avvolgere il sinistro, che si paralizza sempre di più, con flanelle...”.

Da buona cattolica, Isabelle pensa alla sua anima, lo vuole convertito, chiama il prete. Dio esisterà pure, ma com'è meschino... Un vecchio amico dei tempi africani, Dimitri Righaz, sa esprimergli in una frase ciò che sacerdoti e familiari non saranno capaci di fare: “Avrei preferito che avessero tagliato la mia gamba piuttosto che la vostra”. Quando, finalmente, muore, il 10 novembre 1891, il miglior epitaffio glielo scrive l'impiegato dell'ospedale di Marsiglia dove era ricoverato. Alla voce professione annota: “Commerciante”, come indirizzo, “di passaggio”.

“Me ne andavo, i pugni nelle mie tasche sfondate / e in mezzo a fantastiche ombre / come fossero lire tiravo gli elastici / delle mie scarpe ferite, / e avevo un piede accanto al cuore”.



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[English version]


RIMBAUD AND HIS WANDERING ADVENTURE

by Stenio Solinas


An accurate biography on Rimbaud and his African period has been written by Charles Nicholl. Its title is Somebody Else. Arthur Rimbaud in Africa 1880-91 (published by Jonathan Cape). The biography provides the fierce lovers of Une saison à l'enfer's author with two or three relevant elements: once and for all, it reappraises, and does so by using a large number of documents, the belief claiming that Rimbaud was a slaver, puts forward reliable doubts about the truthfulness of the Rimbaud House at Harar in Ethiopia, obstinately reconstructs journeys, earnings, hatred relationships and friendships. It represents the most exhaustive and faithful document of the African period. Even mere readers will find pure mirth in it because Nicholl is very good with reportage and successfully manages to mingle data and narrative inventions, descriptions and feelings.

Wandering Chief was the name of the ship that in 1876 took Rimbaud from Java, where he deserted after enlisting in the Dutch Foreign Legion, back to Europe. A prophetic name for someone who had stayed in Germany and Italy the previous year and who would have gone to Sweden, Denmark and Norway the following, before moving on to the African ports. Alfred Barday, Rimbaud's employer at Aden, claimed: “Trying to keep him was like trying to stop a falling-star”.

His poetic adventure lasted about five years. “The other”, that he would have loved to be, will have a decade available. Enough to create a double existence but not to make the “I” of the past fade away, at least for the others. While Une saison à l'enfer was left rotting in a Brussels' printing house, Illumination was published, edited by Verlaine and without Rimbaud's knowledge, while he was dying of boredom at Tagiùra, in Abyssinia. It was 1886 and the African Rimbaud had grown up. He had business dealings and trade relationships, he lived with a gorgeous Abyssinian woman.

Was he happy? Had he found what he was looking for? Judging by the letters he wrote home, the answer is no. He hated working, he loathed the forced company of “wild or imbecile people”, places revolted him. “It's a real nightmare. I'm about to turn thirty (half of a life!) and I got fed up with travelling around the world with no results”. In the letters he wrote to his mother and sister, however, an admission allows his life to resume a balance: “I am now accustomed to all sorts of troubles. And if I whine, somehow it's like a litany”. One relieves oneself in this way, too. One exorcises the disease that Baudelaire had diagnosed: “L'horreur du domicile”, the horror of residing in just one place. In fact, the more he reassured his family about the normality of his future projects - getting married, coming back, setting up house - the more he thwarted home-style fads: “If I do come back, don't think my mood will be less vagabond. To tell the truth, if I could travel without being forced to earn my living, I wouldn't stay in the same place more than two months. The world is big and full of wonderful places that the existence of one thousand men would not be enough to visit. I wouldn't like to wander about in poverty, though...”.

In reality, Rimbaud was not a misfit, as those who knew him as a merchant and adventurer claimed. He knew Arabic perfectly, he appreciated the Arabic culture, he had friends, and if his “rage was as grey as luxury” and made him have a hard time, he was also sociable, nice and charming. In his biography Nicholl highlights two elements pertaining the African experience. The first is extremity, that is always putting oneself physically to the test. The expeditions, the journeys, the caravans he headed were tiring, utterly fatiguing... The second is his particular ability to hide, to disguise, to disappear. If the first aspect is not new, but rather a constant element (already as a boy and later as a poet, Rimbaud often broke down because he was too tired, because he had walked too much, slept too little, and eaten nothing), the latter somehow represents the keystone of his new life experience. In October 1887, Aden's French consul received a resentful letter from a fellow-countryman, Monsieur Emile Deschamps, who was looking for Rimbaud because, he claimed, he owed him money. It was obvious for Rimbaud to hide, but it wasn't even so easy to hide in a city where a European could be clearly spotted. Rimbaud did it with great naturalness. Alfred Bardey, his most important employer in Africa, described the departure of a caravan captained by Rimbaud: “Rimbaud put a turban around his head, like the Arabians, and wore a red robe over his usual clothes. He wanted to look like a Muslim. We are now laughing of this disguise, and he would laugh with us. Becoming Easternized was risky, he knew it, but he wanted to look like a rich local merchant just for the prestige of his company”. “Dealing in the unknown” actually allows exactly this, that is being new to the world for a new world. Rimbaud relished on himself the intoxicating feeling of creating his own identity. The poet was replaced by the man who made himself, reinvented his own past, built his own present, dreamt his own future. It was a feeling of complete, intoxicating, dangerous freedom. “I pulled ropes between campaniles / Garlands between windows / Gold chains between stars / And I dance”.

Rimbaud's dance began to wobble in the summer of 1887. He was 34, “I have a painful rheumatism in my kidneys, another in my left thigh that sometimes paralyses me, articular pains also in my knee, an old rheumatism in my right shoulder. My hair is completely grey and I'm realising that my existence is going to rack and ruin. I'm tired, I don't have a place, I'm afraid of losing the little things I have. Just think that I'm always carrying sixteen thousand francs in gold in my belt: eight kilograms is the weight and dysentery is exhausting me”. He thinks that it is due to “exploits such as crossing, riding, overland trips and sea voyages, with no clothes, no food, no water and so on”. In reality, his sister Vitalie, and their mother later on, will all die of the same disease: thigh neoplasia. The man whose sole raison d'être had been a restless wandering, sometimes could not move, other times was bedridden. He was a big boy, one metre eighty centimetres tall, wore size 41, was accustomed to fatigue. It'll pass, he said to himself. Evil was playing hide-and-seek with him. It appeared, hit, then disappeared. Nothing is more painful than seeing youth becoming deformed and bending, and not understanding, or not accepting, why. And nothing is more discouraging, for those who used and abused their body, than realising that it doesn't give signs anymore, that it doesn't belong to you anymore.

At the end of his life, when he was forced to use a wheel-chair, Bruce Chatwin found himself fond of the last Rimbaud, as if understanding that death could help him to recover. A modern narrator and traveller was comparing himself to the prototype of modernity in writing and in life. The question continued to be the same: why? Why does a twenty-year-old decide to turn his back on everything and invent himself from scratch? When he turned his back on Europe and on a life made of transgression and wildness, Chatwin saw it as a flight towards salvation, towards physical health. This was the only way in which Une saison à l'enfer could seem plausible. Travelling meant going away from madness, disease, and following the straight and narrow path.

The ability some sick people have to deceive themselves is somehow incredible, their bearing pain and not yielding is somehow heroic. Six days after the operation, Rimbaud wrote to Harar's governor: “I'll recover in twenty days. I will resume my trading business in a couple of months”. He was deceiving himself and he knew it, but always postponed the moment of disappointment. He tried to walk with crutches, he sweated and found a very hard time, thought of an artificial limb, postponed the extreme decision: “Maybe bad luck would fall again upon me then. But in that case I would know how to get rid of a miserable existence”.

A heartbreaking agony: “He suffers when he is moved to an armchair or when he is taken back to bed. Making his bed means filling an empty space in one side, flattening bumps in another, fixing the drawsheet, the blankets. He cannot bear pleats, his head is never in the right position; the stump is too high or too low; his right arm has to be laid completely inert on layers of cotton-wool, his left arm must be wrapped by flannels...”. Isabelle, a good Catholic, thought of his soul and wanted him to convert. She called a priest. God does exist, but how mean he is... When he finally died, on November 10, 1891, the best epitaph about him was written by a worker of the Marseille's hospital where Rimbaud was staying. When writing Rimbaud's profession, the worker put “Trader”, and put “passing through” as his address. “I was going away, the fists in my worn out pockets / and among fantastic shadows /as if they were lyres, I pulled the elastics / of my wounded shoes, / and I had a foot near my heart”.








LA STRUTTURA DI RIMBAUD *

di Hugo Friedrich


[...] L'impressione che destano i componimenti di Rimbaud è tanto più disorientante, in quanto egli parte da un linguaggio che non solo colpisce brutalmente, ma può anche essere capace delle più ammalianti melodie. Si direbbe talora che venga da un altro mondo, splendente, in estasi. Gide lo chiama "roveto ardente". Per altri egli è un angelo; Mallarmé parla dell'"angelo in esilio". L'opera provoca, con la sua dissonanza, i giudizi più contraddittori, i quali vanno dall'innalzamento di Rimbaud a poeta supremo, alla degradazione a giovanetto turbato dalla pubertà, intorno a cui si sono formate le più esagerate leggende. Una fredda analisi può facilmente metter da parte quelle che sono reali esagerazioni, ma dovrà interpretare proprio queste esagerazioni come conseguenza della prepotenza dell'effetto di Rimbaud. Comunque si presentino i vari giudizi, da tutti si deve dedurre che non si può prescindere dal fenomeno Rimbaud, apparso e tramontato come una meteora nel cielo della poesia.

* * * * *

Nel 1871 Rimbaud scrisse due lettere in cui abbozzò il programma della poesia del futuro. Il programma coincide con la seconda fase della sua stessa poesia. Poiché le lettere sono imperniate sul concetto del veggente (voyant), si è soliti chiamarle "Lettere del veggente".
[...] Rivendicare al poeta il rango di veggente, non è certo una novità. L'origine di quest'idea risale ai Greci. Essa fu ripresa dal platonismo rinascimentale, giungendo a Rimbaud tramite Montaigne. [...] Ma ciò che è decisivo è la svolta che Rimbaud conferisce a questo antico pensiero. Che cosa vede il poeta veggente, e in qual modo diventa tale? Le risposte non sono certo greche; sono estremamente moderne.

Meta della poesia è "giungere all'Ignoto", ovvero, con altra formulazione, "scrutare l'invisibile, udire l'inaudito". Conosciamo già questi concetti: essi derivano da Baudelaire e sono, sia qui che là, formule per indicare la trascendenza vuota. Anche Rimbaud non ne dà una definizione più precisa. Resta fermo alla caratterizzazione negativa della meta da guardare. Questa viene distinta come il non-usuale e il non-reale, come l'altro puro e semplice, ma non viene riempita di contenuto. [...] Anche in Rimbaud l'"Ignoto" resta un polo di tensione privo di contenuto. Lo sguardo poetico penetra attraverso una realtà coscientemente frantumata fin nel vuoto mistero.

Qual è il soggetto di questo sguardo? Le frasi con cui Rimbaud risponde a questa domanda sono divenute famose. "Poiché Io è un altro"; [...] "È falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa". Il soggetto vero non è dunque l'Io empirico. Altri poteri subentrano al suo posto, poteri dal basso, di carattere prepersonale, ma di una violenza che costringe. E solo essi sono l'organo appropriato per la intuizionedell'"Ignoto". [...] Siamo giunti alla soglia da cui la poesia moderna comincia a farsi offrire dal caos dell'inconscio nuove esperienze, che la consunta materia del mondo non concede più. Si comprende come i surrealisti del XX secolo si richiamino a Rimbaud come a uno dei loro antenati.

Significativo è anche il seguito del ragionamento: l'autodisarmarsi dell'Io deve essere raggiunto mediante un atto operativo, diretto dalla volontà e dall'intelligenza: "Io voglio essere poeta e lavoro per divenirlo", questo è il principio volitivo. L'esecuzione di esso consiste "nel lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi". [...] Tutto questo per "giungere all'Ignoto". Colui che guarda nell'Ignoto, il poeta, diviene "il grande malato, il grande delinquente, il gran maledetto, e il supremo Sapiente!". [...] Siamo ben lontani dal veggente dei Greci, a cui le Muse parlavano degli dei. [...]

Ci colpisce la bella frase: "Il poeta definirà la quantità d'Ignoto che si sveglia nell'anima universale della sua epoca". [...] Il culmine di questo messaggio suona: il poeta "giunge all'ignoto, e anche se, sgomento, finisce col non comprendere più le sue stesse visioni, pure le ha contemplate! Muoia pure nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili; altri orribili lavoratori verranno e cominceranno dagli orizzonti dove egli è crollato". [...]

* * * * *

[...]
Il rapporto di Rimbaud con la modernità è un rapporto duplice, come in Baudelaire: da una parte avversione per la modernità in quanto progresso tecnico e illuminismo scientifico; dall'altra attaccamento alla modernità in quanto apportatrice di nuove esperienze la cui durezza e tenebrosità esigono una poesia dura e "nera". Di qui la poesia della città, che troviamo nelle Illuminations; una poesia di una potenza grandiosa. [...] Tra i componimenti migliori sono quelli che portano il titolo di Ville o Villes. Con un ammasso di immagini incoerenti, essi creano e cantano città della fantasia o del futuro, superando tutti i tempi, sconvolgendo ogni ordine spaziale; i blocchi sono in movimento, risuonano e ruggiscono; il reale e l'irreale si incrociano. [...]

Non si potrò sbrogliare l'intrico di queste immagini, non si potrà trovarvi un senso tranquillizzante. Poiché il loro senso è riposto nella loro stessa confusione. [...]

* * * * *

Ed ora la questione del cristianesimo di Rimbaud. Non si tratta di un cristianesimo in rovina come in Baudelaire. I testi mostrano che egli comincia con la rivolta e termina col martirio di non poter sfuggire alla necessità dell'eredità cristiana. Certo questo è ancor sempre assai più cristiano dell'indifferenza o dell'ironia illuministica. L'opposizione di Rimbaud è una di quelle opposizioni che restano sempre sotto il dominio di ciò contro cui si levano. Egli stesso ne ha avuto coscienza, e tale coscienza diventa poesia in Une saison en enfer. [...]

Ivi è contenuta l'ultima parola di Rimbaud sul cristianesimo. Il testo consta di sette grandi passi in prosa. [...] Dal punto di vista del contenuto l'opera è una revisione di tutte le fasi precedenti di Rimbaud. E tuttavia questa revisione avviene in modo che egli, nel tentativo di respingere fasi passate, di nuovo si avventura in esse e solo allora le respinge. E così ne risulta uno sconcertante andirivieni: ciò che ha amato, ora lo odia, di nuovo lo ama, lo odia ancora una volta. Ciò che in una frase è presentato affermativamente, nella frase successiva è negato, in quella ancora successiva riaffermato. La rivolta si rivolta contro se stessa. Solo la chiusa trascina tutto ciò in una fine, nell'addio ad ogni esistenza spirituale.

[...]

* * * * *

L'Io che parla nelle poesie di Rimbaud può essere compreso a partire dalla persona dell'autore così poco come lo può l'Io dei Fleurs du Mal. Le esperienze del fanciullo e dell'adolescente possono certo essere ricordate per dare qua e là una spiegazione psicologica dei testi, se se ne ha voglia. Ma ben poco valore hanno per la conoscenza del loro soggetto poetico. Il processo di disumanizzazione si accelera. L'Io di Rimbaud [...] può assumere tutte le maschere, estendersi a tutti i modi di esistenza, a tutti i tempi e popoli. Quando Rimbaud, sll'inizio della Saison, parla dei suoi antenati gallici, lo si può certo anche prendere alla lettera. Ma poche frasi più oltre si legge: "Io ho vissuto dappertutto. Non c'è famiglia d'Europa che io non conosca... Ho nella tsta strade delle pianure sveve, vedute di Bisanzio, bastioni di Gerusalemme". Questa è fantasia motrice, non autobiografia. [...] Con Rimbaud si è affermato quell'anormale distacco del soggetto poetico dall'Io empirico, che si ritroverà oggigiorno in Ezra Pound, in Saint-John Perse, e che già da solo impedirebbe di intendere la lirica moderna come espressione biografica.

[...]

* * * * *

Siamo in un mondo in cui la realtà esiste solo nella lingua.

* * * * *

Le Illuminations. Con una caratteristica plurivalenza, il titolo significa tanto "miniature" quanto "rischiaramenti". Una ripartizione contenutistica dell'opera non è possibile. Immagini e avvenimenti enigmatica passano via. Nel linguaggio si alternano ebbrezze e dure rotture, ripetizioni insistentifino alla monotonia e catene di parole senza sostegno. È raro che il titolo di un componimento giovi alla sua comprensione. La tematica spezzettata oscilla tra un guardare indietro e un guardare avanti, tra l'odio e la gioia raggiante, tra la profezia e la rinunzia. Le eccitazioni vengono sparse in uno spazio che va dalle stelle alle tombe e che è popolato da figure senza nome, assassini e angeli.

[...]

Le Illuminations sono un testo che non pensa a un lettore. Esse non vogliono essere comprese. Sono una tempesta di sfoghi allucinanti e pensano al massimodi destare quella paura di fronte al pericolo da cui scaturisce l'amore per il pericolo. Sono anche un'opera senza Io. Poichél'Io che emerge in taluni passi è quell'Io artificiale, estraneo, che già si era profilato nelle lettere del Veggente. Comunque, le Illuminations confermano che il loro poeta - come dice una frase - è un "inventore che ha un merito del tutto diverso da tutti i predecessori". Esse sono il primo grande monumento della fantasia moderna divenuta assoluta.

* * * * *

Dal 1871 la poesia di Rimbaud divenne sempre più un monologo. Si sono conservati abbozzi di alcuni passi delle opere in prosa. Se si confrontano questi abbozzi con le redazioni definitive, si vede in quale direzione Rimbaud li mutasse. I periodi divengono ancor più concisi,l'omissione di congiunzioni e passaggi ancor più ardita, i gruppi bizzarri di parole ancora più fitti. Da notizie dell'epoca apprendiamo che egli era solito consumare interi blocchi di carta, prima che una redazione lo soddisfacesse, e che si faceva scrupolo se fosse o no da porsi una virgola, se un aggettivo fosse o no da cancellare, e che raccoglieva elenchi di parole rare e desuete, di cui poi si serviva nelle sue composizioni. Tutti questi fatti dimostrano che Rimbaud non ha lavorato diversamente dai classici della chiarezza. Le sue oscurità monologiche non sono un prodotto incontrollato, bensì arte consapevole, e come tali sono perfettamente consequenti in una poesia la cui passione, impossibile a soddisfarsi, per l'"Ignoto", conosce ancora soltanto lavia di scompigliare e trasfigurare ciò che è noto. Guardando dietro a sé Rimbaud scriverà più tardi: "Io notavo l'inesprimibile, io fissavo il turbine"; ma alcune pagine dopo: "Io non posso più parlare". Tra queste due posizioni, le quali certo sono già molto al di fuori, si stende l'oscura poesia di Rimbaud: oscurità di ciò che ancora non è mai stato detto e oscurità di ciò che non può più esser detto, al limite dell'ammutolimento.

Chi non parla più per nessuno, perché mai compone? È difficile rispondere a questa domanda. [...] Uno spirito per il quale ogni dimora è divenuta inabitabile può crearsi da sé la sua dimora e la sua officina solo nella poesia. Forse è per questo che esso compone.

[...]


* H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1971 [ed. tedesca, 1956].








DAL "JE PENSE ..." DI DESCARTES AL "JE EST UN AUTRE" DI RIMBAUD *

di Giovanni Iavarone


"Un Metodo, cioè il modo di porsi di fronte ad un determinato compito"
[W.Gropius]



~ Premessa: l'antico "Si fallor, sum…" di S. Agostino è superato da entrambi, evidentemente, nel senso che quest'ultima nozione di frammento-enunciazione minimale ha come dominante epistemologica il cristianesimo e la sua filosofia del limite (limite che beninteso è acquisito una volta per tutte sia nel frammento descartiano che in quello rimbaudiano, ma in una dimensione laica).
I due pensieri del titolo o del saggio, se vi pare, sono di primo acchito di due francesi: ecco quel che colpisce. È che la storia delle civiltà ha alti e bassi - Spengler docuit - e pertanto nell'Europa Occidentale alla supremazia rinascimentale italiana, ed al siglo de oro della Spagna, fa seguito la rivincita e l'egemonia della Francia (che in verità si stabilizza soprattutto nei secoli XVIII e XIX: Lumi, Rivoluzione Francese, Post-Romanticismo - il Romanticismo lasciamolo ai tedeschi) che incomincia proprio con Descartes, prosegue con Rousseau Diderot e Voltaire, si consolida con Baudelaire Rimbaud Verlaine e Mallarmé.

'Je pense donc je suis' (= Penso dunque sono), ovvero l'autocoscienza, il primo vagito della psicologia (l'inconscio verrà con Sigmund Freud), l'immediatezza dello psichismo puro che si fa materia, il passaggio dall'anima alle sensazioni (Hume e Condillac faranno tesoro del pensiero descartiano) e ai meccanismi di funzionamento del cervello, alle passioni oramai esaminate e passate al setaccio della ragione (preludio a Kant e ad Hegel, ovvero alla 'critica della ragion pura' ed alla 'dialettica'). L'anima e la mente cedono il passo all'essere come vitalità, corpo, e soprattutto ad un metodo per autoindagarsi compiutamente. È la prima comparsa del concetto della 'grande méthode', ossia uno schema di condotta, fondato su un sistema d'indagine di sé stesso e del reale, quasi un codice di comportamento di auto-sperimentazione (il 'nosce te ipsum' antichissimo che prelude a qualsiasi azione da parte del pensatore, del poeta e dell'artista). Nella filosofia di Descartes insomma è "metodicamente" applicata l'antitesi, l'antinomia specifica fra res cogitans e res exstensa che giocano un ruolo cruciale e lo 'spaltung' del mondo indicato in questa coppia di concetti 'base' ha avuto una grossa e duratura influenza sul pensiero dei secoli seguenti. In effetti siamo alla formulazione grezza dello sperimentalismo che poi Galilei estenderà e applicherà alle scienze, facendogli fare un balzo enorme (Newton soprattutto raccoglierà i frutti di simile prassi).

Dunque un metodo per lavorare e produrre risultati, per esaminare con esatta sequenza gli elementi posti in gioco ed eseguirne la scansione analitica. Descartes difatti nell'ambito delle scienze 'esatte' (termine che deriva da lui) introduce per la prima volta nell'Europa dell'Occidente le nozioni e i 'metodi' dell'analisi matematica e geometrica (o geometria analitica), che da allora non saranno più abbandonati (anzi approfonditi ed ampliati), fino ad arrivare, nelle varie diramazioni, al moderno e attuale calcolatore (la lingua francese usa 'ordinateur') o computer per dirla con un termine di uso comune.

Metodo giustamente. In pratica è la tassonomia praticata e applicata ai vari ambiti per secoli, che è codificata e diviene adulta, usata per schema di base d'impostazione per qualsiasi ulteriore azione di classificazione del reale o anche per la creazione di un tipo di ordine alternativo e definitivo.

Il metodo è la rete, la griglia, il disegno di sottofondo per impostare un'azione di ricerca o descrizione del mondo, una sorta di grado zero d'indagine che sfrutterà tutti gl'incrementi delle cifre in progressione. Dopo Descartes e il suo 'Discours de la méthode' (= Discorso del metodo), il procedimento prenderà piede e si diffonderà in qualsiasi ambito, con più o meno cambiamenti ed adattamenti, ma efficace ed attivo, risolutivo.

In letteratura la sua pedissequità verrà inaugurata dall'Encyclopédie massicciamente, come regola tassonomica di classificazione dello scibile o come idea globale di 'cultura tout court' e basta. Questa 'grande méthode' comunque prenderà alla gola, nel secolo dei lumi, sia nel materialismo o nel pensiero libertino, la sistematicità falsa dello spontaneismo della natura (piuttosto panico e quindi religioso in effetti), insinuando per la prima volta il dubbio che l'irrazionale o caos fossero naturali o di ascendenza divina e quindi non analizzabili al lume della 'raison analytique'. Resistendo allo 'sturm und drang' del reattivo romanticismo (all'illuminismo troppo 'sogno della ragione'), e passando inerme nell'incendio susseguente del sentimento e delle passioni incandescenti, il metodo, un razionalismo lucido ma non privo d'immediatezza sentita, si sviluppa. Forse già in epoca romantica,precisamente nei "Frammenti" di Novalis (Friedrich Von Hardenberg), troviamo già i prodromi di applicazioni graduali e integrali di metodologia in certe fulminanti ma efficaci analisi del 'poiein' letterario vero e proprio. Ma 'la méthode' esplode con Edgar Allan Poe, che sebbene americano di nascita, in effetti è inglese ed europeo di formazione letteraria, col suo famoso "Philosophy of composition" in cui il grande scrittore e poeta espliciterà il ruolo dell'artista nella creazione dell'opera d'arte (poesia "The Raven" quale esempio addotto dal Poe), descritta in tutta la sua complessa fenomenologia, e della ispirazione che lo sovrasta nell'atto creativo che segue. No - afferma Poe - l'ispirazione non è un 'furor' irrazionale che discende come una sorta di Spirito Santo sul poeta-artista (la concezione del "furor" come unico fondamento dei doni creativi era di Platone) ma una concatenazione logica e razionale di passi condotti con metodo per arrivare alla produzione di un poema o altra opera letteraria (la prassi è applicabile anche al fare del pittore beninteso - ma ciò è sottinteso e non esplicitato da Poe) che voglia produrre un effetto di commozione o di pathos sul fruitore. Le rivelazioni di Poe fecero epoca (siamo alla metà dell'800; fu Baudelaire a introdurre Poe in Europa, tramite delle traduzioni in francese, circa 1856/57-62, ricordiamolo) e furono accolte ed assimilate con grande prontezza. Difatti fruttificarono immediatamente: Baudelaire ne ebbe un impulso benefico, accelerando la messa a punto delle "Fleurs du mal" (forse Baudelaire si servì delle consapevolezze di Poe, molto prima della data di traduzione effettiva); ma colui che mise a punto la lezione, modificandola a suo uso e consumo, fu il genio precoce di J.A. Rimbaud.

Entra in gioco a questo punto il "Je est un autre", in cui, mediante la 'grande méthode', il "Je" fa un grande balzo e precipita nel gorgo misterioso dell'"autre". Siamo in piena modernità, ovvero ai nostri giorni. Ricordiamoci che Rimbaud aveva abbandonata la poesia e i "marais occidentaux" per "retourner à l'Orient et à la sagesse première", continuando, col silenzio e la sdegnosa solitudine, ad essere più poeta ancora, perché "je suis rendu au sol, avec un devoir à chercher, et la réalité ruguese à étreindre! Paysan!". L'Africa nella quale volle andare fuggendo dalla delusione di "Maintenant je puis dire que l'art est une sottise" e per tentare oramai di "posséder la vérité dans une âme et un corps". Il metodo sarà applicato a partire dagli esordi del '900, data in cui Rimbaud, pur col ritardo di circa un quarto e più di secolo, sarà cominciato ad essere letto e meglio conosciuto (prima attraverso le "Illuminations" e dopo con la "Saison"). Ma nessuno degli artisti riuscì ad applicarlo con la determinazione e la grinta dell'"enfant de colère" di Charleville. E comunque "la méthode" rimbaldiana ci ha insegnato a demistificare, facendoci piombare al centro della realtà, banalizzando il mito (falso) del grande poeta ispirato e vate per designazione del destino e ci ha fatto conoscere anzi che il prodotto della poesia si raggiunge con un grande e immenso lavoro pieno di rischi e di imprevisti, e che sfiorare lo scacco e passare accanto alla follia fa parte della scelta di esser poeta (o diventarlo). La poesia non la si riceve come dono ma la si conquista duramente, giorno per giorno.

Quanto all'irruzione dell'"altro" nel moderno (dal 1871 in poi), con la sua scomoda presenza - fonte di problematicità senza fine -, poi sfocerà nella nascita della psicologia e la successiva analisi psicoanalitica (la scienza della psiche per eccellenza - siamo oramai alla proliferazione delle scienze umane, che si moltiplicano: ovvero l'albero dello scibile mette sempre più foglie ed i suoi rami si diversificano: l'infinità del sapere che esplode in tutte le direzioni). Ma l'"altro", postulato per primo da Rimbaud, ricevette la sua paternità inconscia (?) da Baudelaire, che nelle "Fleurs du mal" assesta un duro colpo al sacro del Cattolicesimo, avendo in pratica messo a nudo l'anima con l'analisi del male e sue ramificazioni nell'essere umano fino alla radice dell'artifizio, con cui spesso lo vede in connubio, decretando (?) e/o anticipando, come dire, la "morte di Dio", che, naturalmente, sarà profetizzata dal Rimbaud della "Saison en enfer" (nei titoli delle 2 opere più importanti della metà '800 riecheggiano due termini e concetti del Cattolicesimo: male e inferno, che sono anche indissolubilmente legati tra loro da una dottrina elaborata lungo i circa 1850 anni dalla nascita del Cristianesimo), che anzi, come un nuovo Gesù Cristo (laico), metterà in atto la sua 'predicazione' con l'azione di abbandonare l'Occidente per l'Oriente. L'"altro" è quindi la proiezione vuota, se vogliamo la gnosi (in quanto mistero, che, secondo Rimbaud, si può sondare con "la méthode" della veggenza - non siamo quindi all'agnosticisimo, che verrà dopo con Heisenberg e Wittgenstein), caratteristica della nostra civiltà all'esordio del capitalismo avanzato (non ancora monopolistico all'epoca di Rimbaud, ma certo già in fase disumanizzante se il medesimo poeta si rese protagonista del commercio delle armi in Africa e altri affari simili - quando verrà questo, ecco irrompere l'agnosticismo).

L'"altro" è anche una sorta di nuovo umanesimo, o un rinascimento, su cui fondare valori tangibili e meno metafisici, non legati ad una religiosità ultraterrena ma immanente, in cui è giocoforza individuare più pragmatiche morali e questo potrà segnare l'inizio di una nuova era o la fine del nostro pianeta. Tutto ciò dipenderà dalla via che le forze della nostra umanità prenderanno e dagli equilibri delicati che reggeranno la marcia verso il futuro.


POSTSCRIPTUM

Quanto poi all'idea di questa breve e limitata indagine sul metodo ("La Grande Méthode" di J.A. Rimbaud!) mi è venuta ricordandomi della maniera piuttosto singolare e inspiegabile di comporre i racconti di cui si dice di Lovecraft. Ovvero egli non faceva che trascrivere la storia dapprima "sognata". È da chiedersi: l'ispirazione - c'è da supporre - gli veniva allo stato di veglia (il giorno?) per poi sognarla, oppure in concomitanza del sogno? Sarebbe interessante conoscere nei particolari questo fenomeno inusitato del dettato artistico che si forma nei meandri insondabili della psiche quando sta dormendo (oh, come porta acqua abbondante al mulino del Surrealismo!) ed è allo stato di semicoscienza, anche se i sogni, come ha ribadito più volte Freud, sono strutturati ed hanno nessi simili ad una logica conscia (l'inconscio, dirà più recentemente - vicino a noi intendo dire - Jacques Lacan, è strutturato come il linguaggio e la lingua che parliamo).

D'altronde l'Ispirazione, per i Greci - occorre ribadirlo - non era una sorta di furore in preda al quale il poeta e l'artista era rapito per un certo periodo di tempo?

Ho detto rapito, in quanto resta occulto ed inspiegabile quello stato nel quale l'artista si trova a vivere quando compone in preda a 'quel furore' di cui essi parlavano per far luce sul fenomeno creativo, che resta ed è uno degli interrogativi più affascinanti della genesi dell'opera d'arte (soprattutto il suo momento o, se si vuole, i suoi momenti). Beninteso veglia e sogno sono strettamente legati e, spesso, l'uno dipende dall'altro *, per cui è da scoprire secondo quale modalità interferiscono e a riguardo della ispirazione onirica di Lovecraft riferita dal suo massimo biografo (L. Sprague de Camp) è da appurare soltanto se le storie incredibili che lo scrittore stendeva sulla carta gli venivano così, tout court, nel sogno oppure il sogno era soltanto il veicolo di perfezionamento e di lima di 'sogni ad occhi aperti' durante le ore di veglia? Insomma H.P. Lovecraft era un visionario di giorno e quindi coltivava la sua immaginazione consciamente per poi perfezionarla e darle il tocco dell'inconscio durante le ore di sonno; oppure, al contrario, egli di giorno ripuliva, aggiustava ed ordinava la materia grezza, caotica e informe che nel sogno gli si rivelava? (e qui - per inciso - siamo al "metodo" rimbaldiano dello "sregolamento dei sensi" per poter ricevere la materia che viene "dall'altro" onde poterla lavorare!). Si tratta comunque ed in breve sempre di visioni da coltivare e trascrivere mediante una tecnica artistica adatta (scrittura, segno, notazione qualsiasi, e così via...), dando l'informe se è quello che si è intravisto e la forma se invece è essa che gli si è presentata immediata.


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* "Chuang-Tzu, filosofo cinese antico. Lui aveva sognato di essere una farfalla e, al risveglio, non sapeva più se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che stava sognando di essere un uomo".
Citazione di J.L. Borges, da: "La metafora" (In: L'invenzione della poesia (Le lezioni americane), Milano, 2001, p.32.
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* Giovanni Iavarone, Dal "Je pense donc je suis" di Descartes al "Je est un autre" di Rimbaud
[Stralcio di un saggio più ampio, pubblicato col consenso dell'autore]







IL “DEREGLEMENT” DELLA SIMBOLIZZAZIONE.
INTERPRETAZIONE ANALITICA DELLA POESIA
LE VOCALI DI RIMBAUD.

di Greta Travagliati

I.PRESENTAZIONE DELLA POESIA E RELATIVE CRITICHE

La poesia che stiamo per analizzare è Voyelles, scritta dal poeta francese Arthur Rimbaud nel 1870-71. Questa tesina si propone di confutare tramite un approccio analitico le divergenti interpretazioni della poesia stessa; solo l’inserimento dell’opera nello specifico contesto storico-culturale e individuale che la genera e caratterizza permette una pertinente comprensione della stessa.

VOYELLES

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,
Golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons
d’ombrelles;
I, pourpes, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes;
U, cicles, vibrements divins des mers virides,
Paix des patis semés d’animaux, ais des rides
Que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;
o, suprem Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges:
- O l’Omega, rayon violet de Se Yeux!


Traduzione:


VOCALI

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto, vello di mosche splendenti,
ronzanti intorno a crudeli fetori, golfi
d’ombra; E, candore di vapori e tende, lance
di ghiacciai fieri, bianchi re, frementi umbelle
I, porpore, sputo di sangue, labbra belle
In riso di collera o d’ebbrezze penitenti;
U, cicli, vibramenti divini dei viridi mari,
pace d’animali al pascolo, pace di rughe
impresse dall’alchimia su ampie fronti studiose;
O, tromba suprema piena d’arcani stridori,
silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
- Oh, l’Omega, di quei Suoi Occhi il raggio viola!


Tale poesia rappresenta uno dei più strepitosi e durevoli fallimenti di tutta la critica letteraria, benché non vi fossero particolari difficoltà intorno alla data di composizione e restasse quindi libero il campo per un’interpretazione che partisse dal testo, e si muovesse poi in una sua contestualizzazione. Al contrario, è stato proposto un inventario di teorie genetiche, che intendevano analizzare la poesia spiegando il motivo per cui, ad esempio, per Rimbaud la A fosse nera piuttosto che rossa, senza porsi nessuna domanda sull’essere proprio di questo poème.

Gaubert per esempio, quando nel 1904 cercava di liquidare il problema segnalando che Rimbaud, da piccolo, aveva avuto un abbecedario in cui la lettera A era nera, la I bianca etc, voleva rendere conto dell’”audiction coloreée” mediante una relazione di tipo esteriore tra significante e significato, che si appellasse ad un precedente esperienza del poeta. Ma critiche simili non potevano che scontrarsi con il lavoro, che vi è ininterrotto, delle metafore, vissuto da Rimbaud come un’esperienza essenziale.

Altri tentarono d’unificare i dati sensibili e l’attività dello spirito. Se A è nera, sostengono, è poiché tale lettera assomiglia, con quella specie di corsetto, ad una mosca, che è nera; è alla luce di simili spiegazioni che Margoni nella sua analisi dell’opera collega il violetto dell’omega col colore d’occhi della donna amata, ipotesi piuttosto arbitraria e messa fuori discussione anche dai commenti di altri poeti a Rimbaud contemporanei. In questo modo viene sì ridata al poeta la libertà di decisione metaforica giudicata indispensabile al divenire della poesia, ma resta però da capire perché Rimbaud avrebbe associato l’A alla mosca che è nera, e non ad esempio all’ape, fulva come l’oro. L’immobilizzazione sui particolari della poesia non permette di comprendere che essa ha una visione unitiva e un fine, una totalità significante. Al contrario, si muta in un vizio di pensiero che permette di ignorare la propria personale mancanza di libertà, ovvero l’arbitrarietà della relazione tra significante e significato, e salvare la vecchia ragione. E a tal proposito pare insufficiente anche un’altra interpretazione, quella di Gérard Genette, nonostante abbia una sua profondità: egli sa che è vano radunare senza un’idea d’insieme alcune identificazioni casuali e, piuttosto che pensare a quel parallelo tra cinque vocali e cinque colori come ad un autentica vicinanza creata da Rimbaud, lo concepisce come presentimento d’una somiglianza strutturale fra il gruppo delle vocali e lo spettro dei colori.

Ma resteranno tutte interpretazioni superficiali, incomplete e infondate, poiché non vanno ad scovare il perché Rimbaud si occupi di questa somiglianza, non analizzano il fatto che egli associa lettere a colori, e questi ad immagini scompaginate, confuse. Una reale analisi del sonetto può avere inizio solo nel momento in cui quello che appare ancora motivazione singola e specifica è ripreso come semplice strumento di cui si serve il poeta per la propria ricerca. La questione fondamentale quindi su cui improntare una analisi non è più perché Rimbaud inventi determinati colori per determinate vocali, ma il fatto stesso che egli associ sistemi di significazione diversi; la teoria analitica di Wittgenstein ci aiuterà a comprendere questo fondamentale passaggio, questa diversa prospettiva di pensiero.


II. WITTGENSTEIN E I FRAINTENDIMENTI LINGUISTICI.

Già nella prefazione del Tractatus logicusphilosophicus Wittgenstein sostiene che il nostro discorso non può esprimere il contenuto di argomenti trascendentali o metafisici senza inevitabilmente incappare in fraintendimenti di tipo linguistico che ne alterano la validità. E’ infatti una forzatura del linguaggio stesso il pretendere che esso si associ a questioni “Mistiche” (dove per Mistico s’intende tutto ciò che non è contingente: la religione, la filosofia, la valorizzazione etica ed estetica…) così come le scienze naturali studiano e riflettono parti del mondo fisico.


4.003:-le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio. Esse sono come la domanda se il bene sia più o meno identico al bello. Né meraviglia che i problemi più profondi non siano in realtà problemi.

4.116:-tutto ciò che possa essere pensato può essere pensato chiaramenente. Tutto ciò che può formularsi può formularsi chiaramente.

7:-su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.


E cosa porta Wittgenstein alla drastica soluzione del suicidio filosofico? L’arbitrarietà della relazione significante-significato in proposizioni che non affermano la sussistenza di uno stato di cose. Il confronto e l’adesione con la realtà è l’unico metro che ci permette di valutare la sensatezza dell’espressione linguistica. Le proposizioni che trattano invece di argomenti astratti, e che quindi non si limitano ad affermare la sussistenza di uno stato di cose, sono sintatticamente coerenti ma la loro sensatezza non è garantita dalla sola sintassi logica:

3.322:-non può mai indicare il carattere comune di due oggetti il designarli con lo stesso segno, ma mediante due differenti modi di designazione. Infatti il segno è arbitrario. Si potrebbero dunque anche scegliere due segni differenti, e ove allora rimarrebbe ciò che è comune alla designazione?.

3.322:-nel linguaggio comune avviene molto di frequente che la parola designi in modo differente (dunque appartenga a simboli differenti), o che due parole, che designano in modo differente, esteriormente siano applicate nella proposizione allo stesso modo.

3.324:-E’ così che facilmente nascono le confusioni più fondamentali (delle quali la filosofia è piena).

3.325:-per evitare questi errori dobbiamo impiegare un linguaggio segnico, il quale li escluda non impiegando, apparentemente nello stesso modo, segni che designano in modo differente. Un linguaggio segnico che si conformi alla grammatica logica (alla sintassi logica).

6.4:-tutte le proposizioni sono di uguale valore.


Queste proposizioni riflettono in maniera perfetta le contraddizioni in cui si scontrano le diverse analisi della poesia. Essendo il campo della critica letteraria, e quindi della valutazione estetica, ogni possibile simbolizzazione perde la sua necessità, divenendo arbitraria. Per cui non è lecito domandarsi perché la A sia nera piuttosto che rossa; essa potrebbe essere anche fosforescente, maculata, poco cambierebbe per quanto riguarda la comprensione della poesia e il significato che essa ci trasmette nel suo insieme. Così come non ha senso discutere riguardo l’origine delle associazioni stesse; che essa derivi da un ricordo legato all’infanzia del poeta, o che egli resti semplicemente influenzato dalla forma delle lettere, sono ipotesi parimenti plausibili ma comunque insensate poiché siamo nel campo del Mistico. Ogni critica risulta quindi insensata poiché, concentrandosi su relazioni tra segni prive di significato, inessenziali al simbolo, diviene tautologia. Così come nessuno mi vieta di dire: “ Un gatto è un cane” ma resto ben consapevole del fatto che tale possibilità sintattica non implica alcuna validità sul piano del significato, così posso attribuire ad ogni associazione lettera-colore il significato o l’origine che più mi aggrada, ma ciò non accresce di nulla la conoscenza sulla poesia stessa, anzi deprime la critica a sterile disguido linguistico.

Questo implica la dissoluzione di ogni possibile critica letteraria? Di ogni ulteriore approfondimento? Wittgenstein ci indica una diversa prospettiva in cui poter valorizzare l’opera senza incappare in errori linguistici:


6.41:-Il senso del mondo è fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore né, se vi fosse, avrebbe valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, che altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori dal mondo.

6.421:-E’ chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono un tutt’uno).


Un giudizio estetico dell’opera decontestualizzata e dei suoi aspetti specifici non ha validità in quanto la poesia è da considerarsi un punto di partenza, non d’arrivo. Inutile discutere sul perché sia articolata in QUEL determinato modo, poiché difficilmente potremmo venirne a conoscenza e poi comunque, se anche colori e lettere fossero stati combinati diversamente, o avessimo la certezza che il poeta li abbia scelti in base a un suo ricordo infantile, cosa cambierebbe a livello di comprensione della poesia? Essa resta comunque un opera contingente, accidentale, e in quanto tale non può essere ricettacolo del proprio valore e significato, attributi necessari; questi vanno cercati al di fuori della stessa, svincolandosi da una schematica significazione personale e contestualizzando la poesia nel più ampio panorama letterario, in modo da poterla cogliere nella sua interezza e complessità.

Lontani dal pericoloso campo delle interpretazioni soggettive, ci limitiamo a valorizzarla in quanto importante momento di un percorso letterario e filosofico in continuo mutamento; nella propria legittima dimensione ecco ricomporsi il significato ultimo di Voyelles, l’unico a cui possiam a buon diritto abbandonarci. Qualsiasi altro atto analitico, chiarificatorio dell’opera, risulterebbe solamente un tentativo di godere del senso di liberazione che otteniamo quando ci illudiamo di aver compreso un significato che prima ci sfuggiva. Ma non è alla serenità personale che dovrebbe mirare una corretta analisi testuale.

E’ invece necessario analizzare il periodo precedente e quello contemporaneo a Rimbaud, nonché le altre opere del poeta scritte nello stesso periodo.


III. L’AVANGUARDIA DA RIMBAUD

Possiamo senza dubbio considerare Rimbaud uno dei pionieri del movimento delle avanguardie, sorto appunto alla fine dell’800 parallelamente al fenomeno del modernismo, da cui però si distingue per significativi aspetti che sarà utile analizzare ai fini della nostra ricerca. Entrambi i movimenti hanno un comune progenitore, Baudelaire; egli fu uno dei primi a far notare l’effetto disgregativo della moderna esaltazione della storia e, pur restando fedele al punto di vista del suo tempo, volle imporre una qualche forma di dimensione trascendentale che la cultura del tempo pareva rifiutare. Inoltre, malgrado restasse ancora influenzato dagli ideali di bellezza visionaria e necessità di spingersi verso l’ignoto del tardo romanticismo, sentiva già pesare sul suo ruolo di poeta tutta la disperazione e la frustrazione che avrebbero animato l’alienazione e la “militanza estetica” dei futuri artisti. L’esaltazione dell’opera d’arte come approdo separato dal mondo ,come strategia per sopportare le pressioni della modernità culturale lo rende però più vicino ai modernisti che alle avanguardie. Entrambi i movimenti sono infatti consapevoli della stupidità della nuova cultura borghese, della sua meschinità etica e dei suoi limiti filosofici che provocano negli artisti un forte senso di alienazione. Però si distinguono notevolmente per la diversa valutazione sociale ed estetica circa la collocazione culturale dello scrittore, per le diverse reazioni estetiche all’estraniazione dai valori dominanti. I modernisti credono più ad un arte d’elite, che non abbia possibilità d’influire sul caos privo di significato e sul declino culturale tipici del fluire della storia moderna, esaltando quindi l’ordine, sia estetico che politico. Opera è sì una protesta contro le condizioni sociali dominanti, ma resta comunque sottomessa rispetto al mondo cui s’oppone, in quanto resta frutto della sola alienazione dell’individuo. L’avanguardia al contrario nutre viva speranza nella riunificazione progressista dello scrittore con la società, pur restando consapevole del baratro esistente tra questo e quelli a cui si rivolge. Nell’avanguardia si riflette il desiderio di avere un nuovo ruolo, attivo, nella società, si immagina tramite il proprio lavoro un mutamento radicale della stessa. Ci troviamo di fronte ad un livello di protesta diverso rispetto a quello dei modernisti: dall’antagonismo sociale si arriva al nichilismo, dall’innovazione formale allo sperimentalismo provocatorio, e dall’aspirazione ad una dimensione trascendentale di arte e società ad una invocazione dei poteri visionari dello scrittore.







L'ITER RIMBAUDIANO



Solitamente ci sono poeti che esprimono totalmente la propria arte superando un iter letterario e poetico che s’inarca nel tempo: per questo in molte antologie si trovano sezioni intitolate ad esempio "poesie giovanili", ad indicare quello che viene prima dell’arte matura dell’artista in questione che ne contraddistingue le peculiarità di stile e di contenuti che solo nella piena maturità saranno capisaldi del capolavoro dell’artista; si nota nel tempo quindi un’evoluzione artistica che può culminare in opera d’arte, che diventa la produzione più rappresentativa di quel determinato artista. Vi sono però delle eccezioni nel panorama artistico che lasciano sbigottiti: uno di questi è il caso di Rimbaud.

La grandezza del suo genio precoce sta nel fatto che la superbia nei confronti della tradizione letteraria s’intona totalmente con la sua virtù e innovazione indiscusse. Quello che più propriamente stupisce di lui è che la sua arte nasce matura già nel momento nel quale egli scrive i primi versi; i capisaldi della sua poetica erano già impliciti nell'essere e la maestria nel governare lo strumento verbale (mediazione tra il suo essere e il mondo) ha fatto il resto. Nasce così qualcosa d’eccezionalmente folgorante, come un razzo che non torna in terra e fa della sua poesia un’improvvisa illuminazione.


LA POESIA

Per molto tempo ci si è chiesto cosa Rimbaud volesse comunicare; egli è portatore di una nuova letteratura, che completa alcuni processi che già Baudelaire aveva incominciato; il primo di essi è l’innalzamento della prosa lirica a strumento artistico-comunicativo: infatti Baudelaire usava questa forma per descrivere le situazioni ed esperienze di sobrio; ne deriva uno stile ricercato che molto deve alla poesia pura espressa in versi. Ciò che invece Rimbaud fa è utilizzare la forma prosastica per descrivere al presente, così come la vive, l’esperienza della visione e del delirio, con forme eterodimensionali di difficile lettura. Egli impartisce l’arte dell’immediato visionario, dove anche la logica consequenziale appare debole, la privazione del principio di causalità mette il lettore in forte disagio, a maggior ragione in un testo che tradizionalmente legato stretto a questo tipo di legge, poiché non riesce a leggerne i contenuti e il messaggio; ciò che però ne scaturisce è un susseguirsi di folgorazioni d’immagini fotogrammiche l’una slegata dall’altra così come nel cervello avviene, pensieri sconnessi e che danno l’idea di un mondo surreale e impossibile.

Proprio l’indipendenza delle immagini è la caratteristica fondamentale del suo stile, parole che comunicano indipendentemente dal loro legame con i verbi o gli aggettivi, e che si caricano di significati plurimi; Rimbaud oltre che a mettere a disagio il lettore privandolo della chiave di lettura più logica e accessibile, aggrava la sua situazione artificiandosi per farsi notevolmente ambiguo in modo che nella sua mente si formino possibilità e non certezze, immagini e impressioni mai confermate, esse così fluttuano indipendenti come le parole che le descrivono. A rincarare ancor di più la dose del suo "astio" nei confronti del lettore, vi è la straordinaria capacità di schernirlo, come ad esempio in "Parata" dove conclude recitando: "Solo io possiedo la chiave di questa parata selvaggia".

Concludendo posso affermare che l’approccio affascinante con quest’artista rivoluzionario mi ha fatto pensare che tutto e molto si può imitare, anche se mai legittimamente, ma che Rimbaud nonostante il suo successo indiscutibile sia il più difficile da imitare. Nel panorama degli scritti (poi come si sa nella sua vita le cose sono andate in modo nettamente diverso) si nota una coerenza d’intenti e un’unità di stile che non ha precedenti, una maturità precoce che accade penso rarissimamente nel panorama artistico. Coloro che dopo di lui hanno scritto in modo diverso li posso dividere in due categorie: 1) coloro che copiano il suo stile, credendo d’essere la sua reincarnazione, non tenendo conto della genuinità del suo genio e del panorama nel quale egli viveva; 2) coloro che non possono fare a meno di scrivere ora in modo diverso poiché passare sopra personalità così rimane impossibile: la poesia dopo di lui non è stata mai così diversa e così viva.

Rimbaud ha aperto le porte al mondo dell’incoscienza, dell’istinto e del delirio della mente dell’uomo, inventando uno strumento poetico che non sia mediazione tra il mondo impalpabile dell’interiorità ma ne faccia parte: un filo diretto con il profondo dell’essere umano.







Il Battello Ebbro, di Sumanovic
SUL BATTELLO EBBRO



Rimbaud nasce nell’anno 1854 a Charleville, in Francia. In questo periodo in Europa vi sono grandi potenze, che competono fra di loro per l’egemonia sul continente. Dopo un periodo di pacifica rivalità si assiste, tra il ’50 e il ’70, a quattro guerre generate dal tentativo francese di rovesciare l’equilibrio del Congresso di Vienna, contrapponendosi all’impero Asburgico. Napoleone III e il secondo Impero francese temono l’unificazione dei paesi di lingua tedesca sotto l’unico impero prussiano, avendo basato la sua supremazia sul continente sulla frammentazione di questi paesi. Il cancelliere tedesco Bismarck crea in questo periodo un sistema di alleanze basato sull’isolamento della Francia, che sfocia nel 1870/71 nella guerra franco-prussiana, conclusasi il 10 Maggio 1871 con la vittoria della Prussia e il trattato di Francoforte, che subordinava la Francia al vincitore e decretava la caduta del secondo Impero, l’invasione del paese e la perdita dell’Alsazia e della Lorena. In seguito all’umiliazione subita si sviluppò un sentimento di rivincita nazionale, il revanscismo, sulla Germania.

Dopo un’istruzione classicheggiante grazie alla sua spiccata predisposizione alle lettere, pubblica a soli sedici anni la sua prima poesia Les Etrennes des orphenilles. Nel ‘70 compone le 22 (32) poesie della Raccolta Demeny, ancora legate ad uno schema classico e grazie al suo professore G. Izambard si avvicina ad autori contemporanei come Rabelais, Hugo e i poeti Parnassiani. Questi ultimi identificano «il fine della propria arte con la rappresentazione il più possibile oggettiva e accurata, in perfetti versi impassibili, di avvenimenti storici o di fenomeni naturali» (E. Wilson), in contrapposizione al movimento tardo romantico, sdolcinato, languido e lacrimevole nelle sue manifestazioni. Si ha con i Parnassiani un ritorno alla classicità in cui la poesia è presentata come una statua: diventa immobilità, è bronzo e marmo, è la poesia che permette all’immagine di durare. E’ il contatto con i Parnassiani e la situazione socio-politica francese che fanno nascere in Rimbaud i primi sintomi della sua insofferenza verso la famiglia, la scuola, la religione e la patria. Tra il 1870 e il ’71 , infatti, fugge di casa tre volte. Leggendo i socialisti francesi (Proudhon, Babeuf, Saint-Simon) matura la sua furia anticristiana e anticlericale. Dal 1871 instaura un’amicizia col poeta Verlaine, di dieci anni più vecchio, che ha svolto un ruolo fondamentale non solo nella sua vita, ma anche nella diffusine della sua opera. Durante questo periodo Rimbaud compone, dopo Les Chercheuses de poux, Le Bateau Ivre, che fu un punto di riferimento per tutta la giovane poesia fin dal momento della sua pubblicazione sulla rivista “Lutèce”, qualche mese prima di quella dei Poeti maledetti e conclude la prima stagione poetica rimbaudiana.

La vicenda del Battello ha un significato simbolico e autobiografico. Un battello da carico, rimasto senza equipaggio, si abbandona liberamente alla deriva in balia dei fiumi e degli oceani; ha così la possibilità di vedere gli spettacoli naturali più incredibili e rari, al di fuori di ogni nozione ideale di tempo e di spazio, al di là di ogni limite di verosimiglianza: cieli ed albe che l’uomo ha soltanto sognato, fiori che sbocciano «fra gli occhi di pantere con pelli d’uomo», enormi stagni fermentati nei cui giunchi marciscono irretiti biblici mostri. L’avventura che il battello compie è il travalicamento della realtà, è quel deragliamento dei sensi, quell’abbandono alla disposizione visionaria teorizzato dallo stesso Rimbaud nella Lettera del veggente.
La poesia inizia con l’arrivo verso il mare del Battello, disceso da un’America lontana popolata di Pellirosse che gli hanno dato la libertà, inchiodando gli alatori “come nudi bersagli ai pali colorati”.

La parola “enfant” ricorre due volte nelle strofe iniziali:


Più sordo della mente dei fanciulli, nei tonfi
furibondi delle invernali mareggiate,
ieri io corsi!, e le Penisole salpate
mai subirono più caotici trionfi.


Il poeta di diciassette anni è sordo ai molti rimproveri e ai richiami di persone che vorrebbero riportarlo alla realtà: fugge con l’ostinazione di un bambino.


Dolce più che la carne dei pomi ai bambini,
la verde acqua penetrò il mio scafo di pino
e mi lavò, sperdendo il timone e il grappino,
dai vomiti e dalle macchie di azzurri vini.


La mela procura al bambino una sorta di battesimo, di ritorno in paradiso. Rimbaud gioca sulla parola sur che vuol dire al tempo stesso acido, acerbo, troppo giovane, e sicuro, degno di fiducia. Il bambino-battello torna al mare (mer), un’altra madre (mère). Le mele acide portano ai bambini al tempo stesso la dolcezza e l’amarezza, come il frutto dell’albero della scienza, che Rimbaud vuole mangiare anche se ciò lo scaccerà da qualche paradiso menzoniero; perché per lui un paradiso in cui non si può mangiare il frutto dell’albero della scienza, non è un paradiso. Il mare, quindi, è come un frutto che i bambini possono mangiare, frutto che impregnerà tutto il battello in un battesimo che lo lava da tutte le macchie.

Se si attraversa il mare, si nasce una seconda volta con un’altra madre, la letteratura, con il cui aiuto si può ricominciare la vita e trovare la donna che si stava cercando invano. Alla fine di questa introduzione il Poema del Mare non è soltanto intriso d’astri, ma lattescente. Dentro il mare persino l’amaro può diventare qualcosa di delizioso:


[...] ove rapito e livido flottare,
talvolta, discende un annegato pensando.


E’ un poema della rinascita, il mare è un immenso grembo. Adesso il battello fluttua, è ebbro, non va in nessun posto preciso; cerca dappertutto, guarda dappertutto, e ad ogni virata nascono le visioni.

Vidi, Sognai, Seguii, Ho urtato... «Ogni strofa è come un’immagine di lanterna magica: proiettata su uno schermo, può staccarsi dalle altre per lo studio e la manipolazione. E’ una proiezione mirabile per la luce che sprigiona, provocata da un uso straordinario degli aggettivi di colore, ognuno dei quali è un campione di quella che potrebbe essere la lingua poetica basata sulle corrispondenze, lingua dell’anima per l’anima» (M. Butor).

Poi, dopo tutte queste visioni, il battello ebbro si riposa. Scende la notte. Si trasforma in donna, quella suora di carità che con la sua devozione e la sua pietà assiste gli uomini che tornano dai paesi torridi, in cui hanno trovato una nuova barbarie, in cui hanno assistito persino gli annegati:


Il mare, dal pianto che dolce mi rullava,
stanco martire dei poli, a volte aizzava
le gialle ventose dalla sua flora ombrata
e io restavo come donna inginocchiata...

Penisola agitante ai miei bordi i letami
e le risse d’uccelli chiassosi dal biondo
occhio, e vogavo mentre tra esili legami
si voltano annegati a dormire sul fondo!...


Tutto ciò è magnifico, eppure Rimbaud rimpiange qualcosa: è l’Europa dai vecchi davanzali. Egli ha bisogno, infatti, al tempo stesso del remoto e del prossimo, ma se va così lontano è per poter rimpiangere i luoghi della propria infanzia, orribili per chi vi resta. La distanza funziona quindi da filtro. Così il battello ebbro stenta ad ammettere che rimpiange meno l’America, citata nelle prime strofe, che quel paese per lui assai anteriore che è l’Europa, dove il bambino che egli è stato e che in qualche parte di se stesso continua ad essere lo aspetta indefinitamente per riconoscerlo e salvarlo:


Se desidero un’acqua d’Europa, è la nera
e fredda pozza ove alla balsamica sera
un
bimbo, accoccolato e triste, scioglie in viaggio
un’esile barca come farfalla a Maggio.


Il che, per Rimbaud, significa che solo nella dimensione del rimpianto e della nostalgia per l’infanzia, quella vita –da cui con fantasia anarchica ha cercato di fuggire– ha qualcosa di suggestivo. Tuttavia nella conclusione riconosce che il suo sforzo di liberazione ha fallito, che le avventure lo hanno deluso; non sente più in sé la forza di penetrare attraverso le forze ostili, di affrontare gli sguardi degli uomini. Egli non è pronto per partire ancora, vorrebbe colare a picco, desidererebbe morire:


[...] O scoppi la mia chiglia! O m’inabissi il mare! [...]


Sempre del 1871 è la cosiddetta “lettera del veggente”, che è in realtà un insieme di due o addirittura tre lettere. Si tratta di un documento di straordinaria importanza per l’itinerario di Rimbaud e per il divenire della poesia e dell’arte moderna fino ai nostri giorni.

All’inizio della lettera Rimbaud afferma che i romantici hanno capito questa verità essenziale, che la poesia è na creazione di cui il poeta stesso non ha una chiara coscienza, (“la canzone è così raramente l’opera, e cioè il pensiero cantato è capito dal cantore”). Baudelaire aveva detto che “la contemplazione degli oggetti esteriori fa dimenticare la nostra propria esistenza”. L’uomo si confonde con le cose e Rimbaud poteva quindi dire: “io è un altro”, ossia l’io che parla in lui non è il suo essere cosciente. Ecco perché “il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta” – afferma Rimbaud – “è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la tenta, l’impara. Non appena la conosce, deve coltivarla [...] Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa. Allora “bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi e [...] giunge all’ignoto” di dove riporta le sue visioni.

Rimbaud utilizza parole come “voyant”, “voir” , per indicare che il poeta è il contrario di un dormiente o di un cieco. Torna più volte il verbo “s’éveiller” (svegliarsi). Il grande sogno è l’unione del giorno e dalla notte. Il poeta è veggente non soltanto perché scopre i destini dell’umanità, ma perché coltiva in sé le allucinazioni dovute alla droga, alla malattia, al crimine: Rimbaud non fa che sviluppare in modo sistematico Les paradis artificiels di Baudelaire. Il poeta è, però, anche un profeta e può essere una guida dell’umanità, indicarle la via del progresso. Ma non deve solo far evolvere l’uomo, ha a carico gli animali, tutta la natura:


Ha l’incarico dell’umanità, degli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe egli dà l’informe. Trovare una lingua;


«Oggi noi sentiamo responsabilità ecologiche perché sappiamo che molte specie animali sono già estinte da un secolo o in via di estinzione. All’epoca non si aveva ancora questa coscienza. Cominciamo a sentirci guardiani del gregge animale, pastori della fauna terrestre. Ma non si tratta solo di conservarli, si tratta di farli evolvere, di trarne tutto l’insegnamento che possono darci, quindi di fare in modo che possano dialogare con noi» (M. Butor). Quanto alla lingua da trovare, è il grande problema che lo perseguiterà fino alla fine. I poeti parnassiani hanno una lingua che permette loro di vedere ciò che ha forma, e la bellezza per loro è sinonimo di forma; ma occorre andare a vedere l’informe, l’ignoto, ciò che non è ancora stato scoperto, e quindi riuscire a tradurre quell’informe, che non è pura negazione, ma un’altra forma che cerca di esprimersi con altri procedimenti, con altra armonia e numeri, con versi differenti.


Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si innesta nell’animo universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!


Per Rimbaud il poeta non deve essere un indicatore della marcia verso il progresso così com’è intesa da tutti o dai più, ma un moltiplicatore di progresso. E può esserlo soltanto come un emarginato cosciente e organizzato, un emarginato volontario che vive nella società pur non facendo parte della società del suo tempo, che vive nel mondo pur non facendo parte del mondo.

Tuttavia Rimbaud, con la sua opera, ha realizzato una frattura incolmabile col passato,dando vita alla figura del poeta ribelle che, in polemica con la società, con il conformismo e con la mediocrità piccolo-borghese, riprende motivi anticlericali e giacobini propri della Francia rivoluzionaria, preferendo la fuga e la miseria alla angusta vita provinciale. Durante il sodalizio con Verlaine, che si interruppe drammaticamente nel ’75, in seguito al colpo di rivoltella che questi sparò all’amico, Rimbaud compose le sue opere maggiori: Derniers verse, Un Seison en enfer e Illuminations.

Se nella lettera al veggente Rimbaud aveva tonato contro la poesia “soggettiva” della tradizione, in favore di una poesia “oggettiva” a venire, dove, secondo la formula famosa l’”Io e un altro”, un passo ulteriore, dopo i Derniers verse, verso questa oggettività lirica, è compiuto con le prose delle Illuminations. Si tratta di «un insieme di studi nel senso musicale del termine» (M. Butor), che non costituiscono, però, una raccolta: i manoscritti sono fogli volanti che partono tutti dal modello dello Spleen de Paris:


Chi di noi, nei giorni ambiziosi non ha sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale, senza ritmo e senza rima, che sappia tanto le morbidezze e gli urti, da adattarsi ai moti lirici dell’animo, agli ondeggianti sogni ad occhi aperti, ai soprassalti della coscienza?
L’ossessione di questo ideale nasce soprattutto frequentando le città smisurate, e dall’incrocio degli innumerevoli riguardi che esse offrono.
[Baudelaire]


«C’è un’unica riserva: non si può dire propriamente che questi studi siano “senza ritmo e senza rima”; ma a ben guardare nemmeno quelli di Baudelaire lo sono» (M. Butor).

Il tema della città enorme, pur tra molti altri, appare infatti particolarmente ossessivo, tanto che lo ritroviamo persino nel titolo di tre delle quarantadue prose, che il critico P. Guiraud ha diviso in “autobiografiche” e “descrittive”. La bipartizione è astratta: quel che conta è che Rimbaud, nelle cui mani la prosa diventa un vero e proprio strumento lirico, distrugge le apparenze sensibili e ricrea sulla pagina un mondo stravolto, surreale, dove vigono nuove misure, proporzioni, rapporti. La scrittura è rapida, essenzialmente paratattica, lucida e rigorosa pur nell’affastellarsi delle immagini, tanto che H. Friederich ha parlato di “fantasia dittatoriale” e di “irrealtà sensibile”. Tutto ciò è ravvisabile in una delle più famose Illuminations, “Alba”, un vero e proprio connubio, una fusione con la natura, “Ho abbracciato l’alba d’estate”, il poeta rincorre l’alba attraverso tutta la poesia, per la campagna e la città, raggiungendola infine “In cima alla strada, vicino a un bosco di lauro”. La narrazione impressionistica della natura che si risveglia, cede poco per volta a una plasticità panica, finché all’apparizione della dea (Je reconnus la déesse) la lirica si fa epica, e si pervade di quel profondo senso mitico di cui era ricco l’animo del poeta. Il fanciullo Rimbaud avvolge l’alba (donna divinizzata) nei “suoi veli raccolti”, fondendosi con lei nel suo “corpo immenso” e annientandosi in un’estasi sensuale. «L’eros panteistico è dunque lo stimolo di questa composizione gioiosa fra le sue più celebri» (Margoni).

Tutta l’opera di Rimbaud viene realizzata tra i 16 e i 19 anni, quando abbandonò repentinamente la poesia per dedicarsi allo studio delle lingue e alla pratica dei più vari e avventurosi mestieri.

“Egli visse - come ha detto un suo biografo - nel giro di tre anni l’evoluzione letteraria dei tempi moderni”.







L’ULTIMA OPERA DI ARTHUR RIMBAUD


-- Charleville (Ardenne) 20/10/1854 - Marsiglia 10/11/1891 --

di Giuseppe De Martini

« …et faire abandon
de ses jambes! o merveille! »

(Honte/Vergogna.
Ultima poesia - da Derniers vers.)


Con una inquietante preveggenza di oltre vent’anni Arthur Rimbaud - uno dei più grandi poeti dell’ultimo secolo - anticipava la propria morte. Nel febbraio del 1891 gli verrà diagnosticato un sarcoma al ginocchio destro e il 9 maggio, all’ospedale La Conception di Marsiglia, sarà amputato. Dopo un breve soggiorno in famiglia si sarebbe ricoverato nuovamente nel mese di agosto per l’aggravarsi della malattia. Non sarebbe più stato dimesso fino alla morte, avvenuta il 10 novembre dello stesso anno.

L’ultima sua opera, però, non è stata interrotta dalla malattia o dalla morte ma è stata decisa dal poeta stesso quasi vent’anni prima, come in musica aveva fatto Gioacchino Rossini e farà più tardi Glenn Gould col suo ultimo concerto pubblico. La differenza sta nel fatto che Jean- Arthur-Nicolas Rimbaud non aveva ancora compiuto 19 anni.

Dall’agosto del 1873 - data della stampa di Une saison en enfer - al novembre del 1891, data della morte, il poeta non scriverà altro che lettere commerciali o di corrispondenza ordinaria ed eserciterà i lavori più svariati: scaricatore di porto a Marsiglia, marinaio (e disertore) in Olanda, imprenditore a Cipro, direttore di una fattoria a Harar, commerciante di caffè e pellami ad Aden, trafficante d’armi in Somalia e in Abissinia.

All’età di sei anni era rimasto orfano di padre (nel senso che il genitore - militare di carriera - se n’era andato per i fatti suoi senza più farsi vivo con la famiglia) ed era stato cresciuto dalla madre contadina. (Il contadino francese, come molti ben sanno, non è il romantico coltivatore di un piccolo podere all’italiana ma un robusto proprietario terriero). A scuola era intelligente ma non diligente. Era un ribelle e nell’età regina di ogni ribellione - a 16 anni - fuggì da Charleville diretto a Parigi, in treno senza biglietto. Scoperto, ritentò l’anno dopo, ma per essere sicuro di arrivare viaggiò a piedi. Questo suo ostinato camminare fu la costante della sua vita. Si pensi che fu il primo europeo a esplorare i territori ancora sconosciuti dell’Ogaden nell’Etiopia meridionale, di cui inviò un dettagliato resoconto alla Società di geografia. Percorse a piedi non solo l’Africa ma intere regioni d’Europa come Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia, Italia, fino a che la malattia lo fermò.

Quando era ragazzo (tra i 17 e i 19 anni, cioè in piena attività artistica) la sua vita aveva incrociato quella di un altro poeta, di lui maggiore di dieci anni e già famoso - Paul Verlaine - che lo ebbe come amico e amante, lo mantenne, lo aiutò, lo amò, lo maledì e gli sparò due colpi di rivoltella, senza peraltro fargli gran male ma beccandosi due anni di prigione e la separazione definitiva da una moglie non cercata né gradita. (Famoso il verso: Il faut, parfois, poète, un peu quitter la dame / Bisogna talvolta, o poeta, abbandonare un poco la signora.) Questa burrascosa relazione artistica e sentimentale è ricca di aneddoti e ancor più pettegolezzi e si mantenne tra alterne vicende, separazioni, malattie fino alla morte di Arthur, ma a noi in questo momento non interessa.

Torniamo piuttosto al tema iniziale: l’ultima opera di Rimbaud. Essa s’intitola Una stagione all’inferno e consiste in brevi prose e poesie scritte nella casa materna durante il soggiorno che va da aprile a luglio 1873, stampate a spese dell’autore nell’agosto dello stesso anno e rimaste nel magazzino dell’editore (perché mai pagate) per vent’anni. Pochi mesi prima aveva composto Illuminazioni e una piccola raccolta intitolata Ultimi versi, quasi un preludio dell’addio alla poesia e la preveggenza delle modalità della propria fine (…et faire abandon des ses jambes). Il titolo dell’ultima opera è apparentemente la metafora di quella discesa agli inferi di cui esistevano già in letteratura numerosi esempi (Ulisse nel libro XI dell’Odissea, Enea nel libro VI dell’Eneide, per non parlare di Dante e della sua Commedia). L’inferno a cui si riferisce però diventa sostanza nel momento in cui lì, nella casa materna, accudito anche dalla sorella Isabelle incontra i propri antenati: “Dei miei antenati, i Galli, ho l’occhio biancoazzurro, il cervello stretto e l’inefficienza nella lotta. […] Di loro ho: l’idolatria e l’amore per il sacrilegio; ah, tutti i vizi”. Prende coscienza di averli traditi: “Io! Io che mi ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi riportato al suolo[…] Bifolco! Insomma chiederò scusa per essermi nutrito di menzogna”. Non era la poesia la tradizione della sua gente ma il commercio e la coltivazione della terra, il denaro come strumento necessario per vivere e non i castelli in aria e i colpi di testa della fantasia. “Se Illuminations e i Derniers vers contengono alcuni dei versi più perfetti che siano mai stati scritti… Une Saison en enfer, al contrario, parla una lingua più umana, chiamiamola unica, una lingua fatta di frustrazione, lamenti, rabbia, autocommiserazione, accuse, discolpe, opportunità mancate e fallimenti”. *

Il poeta che fino ad allora ha sfidato i suoi lugubri antenati, si trova finalmente faccia a faccia con loro e da quell’incontro con le proprie radici capisce la direzione che deve prendere la sua vita. È un incontro necessario, come già quello di Enea col padre Anchise nei Campi Elisi o come quello di Ulisse con la madre Anticlea nel Tartaro. L’eroe troiano ne trarrà impulso per la fondazione di una città e di una stirpe (Roma e la gens Julia), il vagabondo re di Itaca per tornare alla famiglia e al proprio regno. Anche Rimbaud ha bisogno di conoscere il proprio destino e perciò ritorna agli antenati e alla terra nella quale sono sepolti e che lo ha generato. Vi si immerge. Non scriverà mai più.

Je dois enterrer mon imagination et mes souvenirs / Devo seppellire la mia immaginazione e i miei ricordi.” A diciannove anni di età, Rimbaud era stato raggiunto dai suoi morti, e questo era tutto.


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* RP. Harrison: Il dominio dei morti., Fazi Editore.
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Mystere Rimbaud
IL MISTERO DI RIMBAUD, POETA MALEDETTO


A centocinquant'anni dalla nascita, indaghiamo sulla travagliata vita di questo enfant prodige della letteratura francese che compose i suoi primi versi all'età di dieci anni


Ernest Hemingway, in uno dei suoi racconti più riusciti e noti, Le nevi del Kilimangiaro, riassume in un distico di poche righe una storia enigmatica: quella di un leopardo andato a morire vicino alla vetta occidentale dell'imponente montagna, ben oltre i cinquemila metri d'altezza. «Nessuno ha saputo spiegare», conclude lo scrittore, «cosa cercasse il leopardo a quell'altitudine».

Un enigma analogo dobbiamo proporci dinanzi alla figura di Arthur Rimbaud, il "poeta bambino" che fu subito maestro senza essere mai stato discepolo. A 26 anni, quando già aveva composto le opere che dovevano assicurargli l'immortalità, lasciò il suo mondo e i suoi sogni d'arte e si trasferì in Africa, dove si guadagnò da vivere come mercante, dando prova di una spregiudicatezza solitamente ignota ai poeti. Restò nel continente nero undici anni, e vi sarebbe rimasto di più se un cancro non l'avesse riportato quasi agonizzante in Francia, dove morì il 10 dicembre 1891, a soli 37 anni.

Che cosa era andato a cercare in quelle terre lontane e desolate il poeta giovinetto che aveva qualcosa di angelico nello sguardo azzurrino e qualcosa di satanico nello spirito? Era naturale che un simile mistero riverberasse su di lui un alone di leggenda, ed era naturale che questa leggenda ne rendesse ancor più falsa e indecifrabile la vita e l'opera. Si è detto che egli preferisse al sogno la vita attiva, che la sua poesia tendesse al superamento dell'arte per giungere, attraverso l'esplorazione dell'ignoto, alla realtà vera. Certo è che egli avvertì in un determinato momento di aver esaurito il proprio compito. Scrive Mario Richter, uno dei più accreditati studiosi di Rimbaud: «La sua testimonianza, terribile, l'aveva data… Aveva esaurito le sue energie. Aveva dato tutto se stesso. Aveva pagato di persona. Non gli era rimasto che mettersi da parte, andare via».

Tuttavia questa è solo un'ipotesi, per quanto ben congegnata, e la domanda inquietante che abbiamo sollevato all'inizio torna a proporsi, e a suscitare le interpretazioni più disparate, non escluse quelle in chiave psicanalitica. E la leggenda continua ad amplificarsi e a presentarci di volta in volta un Rimbaud occultista e cabalista, mago, santo e mistico, patriota e disfattista, comunardo e bolscevico, provinciale e borghese. Fino alla sublimazione ultima che ne fa un profeta, un superuomo, un angelo (del bene e del male), un essere capace di raccogliere in sé tutte le aberrazione dell'età "dell'angoscia".

Per sollevare questo velo di mistero e di mito è necessario tornare alle origini, cioè leggere (o rileggere, per chi già lo avesse fatto) la sua opera poetica, con animo sgombro di pregiudizi e quasi prescindendo, se possibile, dalle interpretazioni della critica; e ripercorrere, magari anche attraverso le lettere, la vicenda esistenziale, complessa e tormentata, del poeta. A partire da Charleville, la piccola cittadina delle Ardenne che gli diede i natali, fino ad Harar, la città dell'Etiopia dove trascorse gli ultimi anni di vita e dove si manifestò il terribile male che doveva portarlo alla tomba. L'occasione per una rivisitazione, e per un bilancio, ci è data oggi dal 150° anniversario della sua nascita, avvenuta per l'appunto il 20 ottobre 1854.

Il padre del poeta, Frédéric, era un ufficiale di fanteria. Ebbe, prima del figlio, la passione per l'Africa (la sua carriera si era svolta prevalentemente in Algeria) e quella per la scrittura. I doveri militari lo tenevano spesso lontano di casa, fin quando non decise di lasciare la famiglia e sparire; sicché Arthur non lo conobbe quasi. La madre, Vitalie Cuif, era una donna autoritaria e terribilmente intransigente, che non seppe mai essere di aiuto al figlio. Arthur fece studi proficui nel Collège di Charleville, imparando in fretta i fondamenti dell'ars poetica e la lingua latina, e acquisendo gran dimestichezza con i classici (a 10 anni compose i suoi primi versi). Ma soprattutto trovò un interlocutore intelligente e premuroso - un po' padre, un po' fratello - nell'insegnante di retorica, George Izambard. Il promettente allievo si segnalò ben presto per i suoi componimenti in latino: «Egli scriveva con verve», ricorderà Izambard, «per il solo gusto del virtuoso, in una lingua che voleva e sapeva render chiara ed eloquente, proprio come il suo francese d'allora… o l'etiopico che parlerà correttamente alla fine della sua vita». Subito dopo, a 16 anni, cominciò a scrivere versi "parnassiani" che inviò, sperando nella pubblicazione, a Theodore de Banville.

La sua strada era segnata, e la sua personalità sembrava già formata, con il rifiuto sdegnoso della normalità ottusa della provincia, con la rivendicazione di un'operosa solitudine. È il 1870: l'anno per la Francia della guerra contro la Prussia, e Arthur è sempre più infastidito dal patriottismo tronfio e vuoto dei borghesi di provincia, che in verità hanno a cuore solo i loro interessi di bottega. Il suo sguardo è rivolto a Parigi, che egli non conosce, ma che sa essere terra di cultura e di libertà. Senza un soldo in tasca, tenta un'impossibile fuga che finisce alla prefettura di Mazas. Sarà il suo professore a liberarlo, ma ben presto Madame Rimbaud pretenderà il ritorno del fuggitivo. Annota desolatamente il poeta, riportato a casa: «Io muoio, mi decompongo nella volgarità, nella cattiveria, nel grigiore. Che volete, io mi perdo ad adorare la libertà assoluta».

Il 18 marzo 1871 a Parigi viene proclamata la Comune, il tentativo di instaurare una forma di governo basata sul suffragio universale e sulla gestione operaia dell'economia. Arthur che, oltre ad aver fatto propria la lezione dei classici, ha letto le opere di Louis Blanc e di Proudhon, di Thiers e di Michelet, si lascia prendere dal sacro fuoco della rivoluzione. Questa volta riesce ad arrivare a Parigi, dove partecipa all'insurrezione e scrive canti di battaglia. L'esperienza si rivelerà deludente, ma gli consentirà di maturare un nuovo stile poetico e, soprattutto, di teorizzare un nuovo modo di essere poeta.

Egli si farà "veggente", non già nel senso eroico di Hugo, ma in quanto, liberandosi delle infrastrutture culturali che fanno da velo alla nostra conoscenza, potrà attingere la verità autentica. «La Poesia», afferma, «non si limiterà a ritmare l'azione: essa sarà più avanti». Di qui il rifiuto di tutte le sue composizioni precedenti, e l'invito a Paul Demeny - un nuovo amico - a bruciare tutti i versi fatti fino a quel momento. L'invito fu disatteso, ed è una vera fortuna, giacché in tal modo furono salvate composizioni di grande pregio, in particolare il celebre sonetto sulle forme, i colori e i suoni delle vocali (Voyelles) e il poemetto simbolico-esistenziale del battello ebbro (Le bateau ivre): due testi che, per la sicurezza del dettato e la novità dell'invenzione, sono punti di riferimento della lirica europea moderna e contemporanea.

Da maggio a settembre ritroviamo Arthur a Charleville a meditare nuove fughe, ma l'assoluta mancanza di risorse ne complica i piani. La madre, avara e bigotta, gli passa 10 centesimi la domenica per pagarsi la sedia in chiesa, e null'altro. Scrive a Verlaine, i cui versi (Fêtes galantes, La bonne chanson) egli ha letteralmente divorato, e chiede il suo aiuto. Verlaine che, a 26 anni, è già poeta affermato, gli risponde: «Venite, cara grande anima, vi chiamiamo, vi aspettiamo». Inizia così un sodalizio, non solo artistico, che susciterà non poco scandalo in Francia e in Europa.

Il poeta più affermato accoglierà generosamente il ragazzo prodigio. Gli darà ospitalità, e in seguito gli aprirà le porte di altre case parigine; gli farà conoscere i suoi amici, poeti, pittori: un po' scapestrati, bevitori di assenzio e fumatori di hashish, ma spesso geniali. Il poeta bambino non si integrò mai del tutto nel gruppo, e una sera, in preda ai fumi dell'alcool, dopo un aspro battibecco, tirò fuori una lama con cui tentò di aggredire un rivale.

Le cose andarono diversamente con Verlaine. Fra i due si stabilì un'amicizia intensa, fatta di poesia e, diciamo la parola, di amore. Nel luglio 1872 Verlaine, che all'epoca aveva una giovane moglie e un figlio, ritenendo quella situazione insostenibile, lascia tutto e parte con Arthur per Bruxelles. Scrive alla moglie in quell'occasione: «Mia povera Mathilde, non ti addolorare, non piangere, sto facendo un brutto sogno, un giorno tornerò». Andarono prima in Belgio e poi a Londra.

Ma c'era sempre qualcuno che s'incaricava di riportarli a casa: la madre di Verlaine e quella, assai meno comprensiva, di Rimbaud. E poi c'era il pensiero degli altri che cominciava ad assillarli: la lontananza dei vecchi amici, la miseria, la noia, e quella infelicità di cui i poeti non sanno fare a meno. Verlaine soprattutto era molto inquieto. La natura capricciosa, talvolta isterica, del suo compagno ne esasperava l'animo già esacerbato. Il 3 luglio 1873 dopo un banale litigio, Verlaine all'improvviso s'imbarcò alla volta di Ostenda e se ne andò.

Ma la determinazione, appena presa, era già in discussione. Si profilò allora un'altra ipotesi: por fine a ogni problema con il suicidio. I due poeti si rividero l'8 luglio a Bruxelles, senza riuscire a sciogliere il bandolo della matassa. Alla fine, fuori di sé, il 10 luglio Verlaine sparò tre colpi di pistola contro l'amico, mancandolo due volte e ferendolo la terza a un polso. Rimbaud finì all'ospedale, Verlaine in carcere preventivo, dove l'8 agosto fu condannato a due anni di prigione e a 200 franchi di multa, nonostante Rimbaud avesse ritirato la sua denuncia. La condanna fu confermata in appello. Era la fine per entrambi di una stagione "magica", di una vita "inimitabile". Dopo, niente sarà più uguale: Verlaine cercherà una rigenerazione passando attraverso una crisi religiosa; Rimbaud si rinserrerà nella solitudine, nella tragica alterità del poeta dinanzi al mondo, fino al momento della fuga - la rottura definitiva con il proprio passato e, in qualche modo, con la propria identità.

Ma prima dell'Africa ci sarà il doloroso raccoglimento nella quiete di Roche - il paesino dov'era il podere di famiglia - che produrrà il frutto più maturo: Une Saison en Enfer ("Una stagione all'inferno"). In questa opera, una sorta di ossessionante autobiografia, Rimbaud riversò la sua amarezza e la sua delusione per la realtà di una vita fallita e di una poetica incompresa. Anche se in seguito scriverà le Illuminations, portate a termine nel 1875, Une Saison en Enfer conclude drasticamente la sua prima vita e ne costituisce il riepilogo. Scrive il poeta: «Tutte le feste ho creato, tutti i trionfi, tutti i drammi. Cercai d'inventare fiori nuovi, nuovi astri, nuove carni e lingue nuove. Ho creduto di acquistare sovrannaturali poteri. Ebbene! io devo sotterrare la mia immaginazione e i miei ricordi! Bella gloria d'artista e narratore andata a monte! Io! io che mi sono detto mago o angelo, esente da ogni moralità, eccomi per terra, in cerca di un dovere, con la scabrosa realtà da stringere! Bifolco!». È la confessione di una sconfitta, un immergersi nella mistica della disperazione, un abbandonarsi a brevi estasi illusorie, un corteggiamento della follia.

Nasce adesso, sulle rovine del poeta, il viaggiatore instancabile e curioso: dapprima la spola fra Londra e Parigi, con qualche puntata in Italia, Austria e Olanda. Di qui s'imbarca per Sumatra e Giava; poi torna in Europa, e si ferma a Stoccolma, dove lavora in un circo; infine raggiunge Amburgo, ed offre i suoi servigi a una ditta di prodotti coloniali. Prima di raggiungere Aden, sul mar Rosso, continua a girovagare: Alessandria d'Egitto, in cui spera di trovare lavoro, e Cipro, dove diventa capocantiere di un'impresa che sfrutta una cava di pietra.

Nel maggio dell'80 si trasferisce definitivamente in Africa, ad Aden e poi ad Harar. Si dedica alle esplorazioni e soprattutto agli affari: trafficante d'armi, di casseruole, di arachidi, di avorio, di pelli (ma non di schiavi, come qualcuno sospettò). Non rimpiange il passato, o almeno non ne dà l'impressione. Dopo tanta povertà ha raggiunto adesso una certa agiatezza. Ma non è felice. Nelle lettere annota meditazioni sconsolate sull'esistenza: «Fortunatamente questa vita è la sola che abbiamo… perché non si potrebbe immaginarne un'altra così insopportabile»; «Ogni uomo è schiavo di questa fatalità miserabile, a Aden come altrove»; «L'uomo consuma tre quarti del suo tempo nella sofferenza, e un quarto per riposarsi; quasi sempre crepa di miseria senza avere un progetto di vita».
Verrà la morte anzi tempo a dargli la pace. Gli ultimi giorni furono costellati di dolori indicibili; di tanto in tanto però cadeva in un torpore dolce e rassegnato. La sorella, che amorevolmente lo assisteva, disse: «Finisce la sua vita in una sorta di sogno continuo».

~ Paolo Pinto


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